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Integrità e coerenza dell’informazione: la coscienza

Tutto questo discorso in merito ad un’ontologia per proprietà anziché per oggetti (enti) dotati di qualità (spirito/essenza), ci ha portati a definire un sistema decentralizzato per potere definire le esistenze. Arrivati a parlare di questi nodi-proprietà che vanno a definire le esistenze possibili ed impossibili (essendo l’esistenza una questione a priori rispetto alla possibilità e all’impossibilità, come già analizzato), andremo nei prossimi articoli a discutere rispetto alle relazioni semantiche che compongono la dialettica stessa tra di essi, fondando un nuovo tipo di logica, ma questo lo vedremo poi.

Nel precedente capitolo dissi che sarei andato a parlare degli archetipi ontologici e dell’inconscio ontologico, ma prima di fare ciò si rende necessario aprire una postilla per quanto riguarda il meccanismo che permette la correlazione stessa tra proprietà: la coscienza. Ad oggi il campo dell’intelligenza artificiale si è evoluto a tal punto da potere generare dei software talmente elaborati che in alcuni casi sono arrivati addirittura a superare il test di Turing. Alcuni potrebbero arrivare a pensare che sarà possibile un giorno, non tanto lontano, la programmazione di un universo di enti coscienti, arrivando a concludere anzi che noi stessi umani potremmo essere il frutto di una medesima logica di generazione, ovverosia una computazione, portando ancora una volta all’ennesimo teismo, stavolta applicato alla tecnologia. Non è infatti raro trovare teismi che affermano che la creazione sia sostanzialmente un computo. A confutare questa tesi vi è tuttavia quella di Church, che assieme a quella di Turing, ci fanno capire che siamo nella realtà. E di per sé ciò significa che le intelligenze artificiali sono ad un livello che loro non possono oltrepassare, mentre noi invece sì. Questo porta poi a tesi inerenti al quantum computing ed a teorie quantistiche a volte strampalate, magari riguardanti proprio la coscienza, pur basandosi su matrici binarie che però possono assumere più stati rispetto al normale sistema binario presente sui computer classici. La logica quantistica è difatti più un espediente per velocizzare la soluzione di problemi che altro. A livello teorico non comporta alcuna rivoluzione. Si dovrebbe rivoluzionare pertanto l’intera base matematica della logica per confutare le tesi di Church e di Turing; la teoria della computabilità vale per ogni sistema logico. Una coscienza digitale pertanto non può essere realizzata, per il semplice motivo che coscienza e digitale sono una contraddizione di termini. Una simulazione di un software cosciente su hardware binario rimane sempre un hardware binario. Una coscienza artificiale la si potrebbe realizzare solamente modificando completamente l’hardware del calcolatore affinché contenga le stesse caratteristiche funzionali di un cervello, anche perché, aggiungo, i calcolatori hanno limitazioni software e hardware cui non si può prescindere. Con ciò non si va a restringere la coscienza esclusivamente all’encefalo, perché la coscienza di per sé è un sistema di informazione integrata. Se si misura l’integrazione di un calcolatore di Von Neumann, non è di più di quella di una pietra (http://integratedinformationtheory.org/). Ed anche se fosse un argomento probabilistico utilizzato come fosse deduttivo, nulla vieterebbe di simulare qualcosa di simile in un contesto digitale più avanzato, proprio perché stiamo ragionando in termini induttivi, potrebbe avanzare uno come tesi. D’altronde perché dentro a questa “scatola chiusa” non si potrebbe generare un’emergenza di proprietà differenti da quelle che noi possiamo misurare dal fuori? La risposta è che l’hardware è ciò che realmente conta, il software dipende sempre da esso. Si tratta di un semplice emulatore che non ha le stesse caratteristiche dell’hardware originale. Se si simulasse dei circuiti integrati, quei circuiti non lo sarebbero davvero. Un film può essere realistico quanto si vuole, ma rimane un film. È la medesima questione. L’argomento ha forza deduttiva perché è ormai noto quali sono le proprietà della coscienza, cioè integrazione e differenziazione. Ovviamente non bisogna escludere che altri sistemi fisici diversi dal cervello possano essere coscienti, ma questo solo perché hanno quelle proprietà. I calcolatori di Von Neumann non hanno quelle proprietà, quindi non possono essere coscienti; e si tratta di proprietà insimulabili.

Si pone poi un altro problema: questo è che quelle proprietà sappiamo che ora non si danno, mentre in un tempo futuro potrebbero svilupparne alcune che le rendano coscienti. Per esagerare e direi per assurdo, non sappiamo se l’universo sia cosciente o meno, sta di fatto che non è scontato né che lo sia né che non lo sia. Semplicemente se lo fosse è supponibile che lo sarebbe in un modo molto differente dal nostro. Allo stesso modo, se si accettasse che la nostra forma di coscienza non è l’unica, potrebbe essere che una qualche forma di coscienza si possa dare all’interno delle infinite forme configurabili possibili dentro ad un software. Sì, si presume che sarebbe “inferiore” rispetto alla nostra, data la tesi Church-Turing, ma non sarebbe lecito ammettere che non si potrebbe dare coscienza artificiale in assoluto con le premesse considerate. Inoltre non si può logicamente accettare che un argomento induttivo possa assumere forza deduttiva all’interno di un contesto sperimentale e o empirico. Si torna al problema dell’induzione di Hume ogni volta.

La coscienza come informazione integrata non è una proprietà modellata solo sul nostro cervello, ma su qualsiasi animale. I test sono stati fatti su varie specie, ed i risultati sono concordi. Più l’indice è alto, più questi animali sono coscienti. Non si tratta quindi di applicare una nostra categoria ad altri animali. Una teoria scientifica della coscienza deve definire ciò che la coscienza è in termini fisici, altrimenti si può sempre ribattere che non sappiamo se x è cosciente perché potrebbe esservi un ingrediente non fisico della coscienza che noi non conosciamo. Ma questo promuoverebbe lo scetticismo assoluto, perché in linea di principio, noi non possiamo conoscere spiriti, anime, chakra, etc., sono esistenze impossibili, ossia correlazioni tra proprietà che non trovano alcuna possibilità epistemica se non quella delle singole proprietà.

Quindi questa è: la coscienza è costituita da questa lista di proprietà. Se un organismo ha queste proprietà, allora è cosciente. L’organismo però queste proprietà le deve avere, non può fare finta di averle. Ci sono insetti che assomigliano a foglie, ma questi insetti non sono foglie. Nel caso del calcolatore di Von Neumann che simula la coscienza, non sarebbe diverso da questo insetto. Il punto cruciale è che è questo indicatore, e non l’osservazione comportamentale, a determinare se qualcosa è cosciente oppure no. Il comportamento da solo non è per niente affidabile. Quindi se si inizia a dubitare della teoria o la si sostituisce, oppure si può aggiungere o togliere qualche proprietà. Ma in linea di massima sappiamo che:

  1. La modularità è incompatibile con la coscienza.
  2. I calcolatori attuali sono modulari.

Quindi i calcolatori modulari non possono essere coscienti. Ci potrebbero essere forme di consapevolezza inferiori alla coscienza di cui non siamo a conoscenza? Sì, senza dubbio, ma sarebbe un’altra cosa e la si potrebbe chiamare coscienza solo in senso molto lato. Inoltre, deduttivo non vuol dire evidente: se in un argomento deduttivo dovessimo mettere solo premesse la cui verità è data in modo immediato ed evidente, non avremmo argomenti deduttivi. Ci possono essere verità a priori necessarie che per noi sono difficili da scoprire, come che l’acqua è H2O. Nel discorso della coscienza è la stessa cosa, solo che al posto di H2O abbiamo una lista di proprietà che insieme danno la coscienza.

Al contrario però si potrebbe asserire che la coscienza descritta in termini sperimentali non è mai in grado di poter fornire una conclusione che sia in grado di quantificare veramente su una classe di enti (animali, computer, etc.). È una questione di rigore argomentativo che non può darsi allo stesso modo di come lo si dà per le questioni matematiche. Si è anche sostenuto che l’origine della deduzione fosse la regolarità di un’induzione, che è per sommi capi quello che intendeva Stuart Mill nella sua logica. Però, sia che se ne dia il caso o meno, abbiamo lo stesso problema quando ci basiamo su dei dati a livello empirico e passiamo per enti inosservabili per trarne conclusioni scientifiche sia per definire le proprietà di una coscienza sia per definire le proprietà di un’emulazione. Supposto che l’emulazione non possa diventare cosciente, per coerenza sperimentale, bisognerebbe fornire il perché ciò non potrebbe diventarla. Rielaborando la precedente tesi, si mette attenzione su un punto importante, però la questione finisce per porsi in due segmenti: la coscienza non è una disposizione di proprietà totalmente osservabili perché, «il comportamento da solo non è per niente affidabile». In più bisogna fare ricorso ad entità inosservabili per spiegare la coscienza in termini sperimentali. Come trattare dunque le entità inosservabili? In questo caso, osservare l’emulazione di qualche cosa che intende riprodurre un essere cosciente non sarebbe uguale ad una funzione. Bisognerebbe riferirsi ad un’emulazione di attività inosservabili. Ma se si riferisse a tali attività, allora perché non se ne potrebbero dare altre di inosservabili però non considerate da nessuna nostra teoria? È plausibile una situazione di questo tipo. Lo vediamo tutti i giorni che le nostre teorie, che sono teorie che vertono su ambiti empirici, devono spesso ricalibrare il tiro per colpire il bersaglio, raggiungendo l’obiettivo descrittivo specifico. Ciò è dovuto allo stesso motivo, ovverosia che ci sono sempre dettagli subliminali che passano inosservati, sfuggenti. Non per forza però si ricade in uno scetticismo assoluto. Diciamo che anche lo scettico è così usato dalla ragione. Essa è quindi anche un istinto di compensazione per cogliere e valutare gli istinti viziati (i pregiudizi e le fallacie). Il problema poi è che le verità che si danno (come dato empirico) non possono essere mai poste alla base di argomenti deduttivi, anche se sono immediate ed evidenti. Il dominio empirico resta sempre quello, ed i ragionamenti che si fanno al suo interno non possono avere la forma delle deduzioni. Inoltre è manifesto che la verità empirica sia precaria. Mentre non dovrebbe essere il caso per la verità deduttiva.

Ritornando sui nostri passi ed analizzando questa tesi, si evince come esistano tuttavia misure osservabili che non derivano dal comportamento, come l’indice di perturbazione che è una misura della coscienza; la si ottiene con degli strumenti (EEG e TMS) e con dei calcoli al computer. Questo indice è universale e lo si può applicare a tutto (https://github.com/moikle/phi-1 e https://github.com/singnet/phi). Per sapere se veramente questa teoria della coscienza provenga da un’induzione, si dovrebbe chiedere a chi l’ha formulata, cioè Giulio Tononi, come ci è arrivato. Può anche benissimo essersi svegliato la mattina ed avere avuto un lampo di genio, e la verità di una proposizione non dipende da come questa proposizione è stata scoperta. Può avere avanzato una congettura basata sul nulla, o averla tratta dall’osservazione, non è importante. Quello che importa è vedere come funziona questa teoria se messa in un argomento deduttivo. Se funziona bene, allora la si può tenere. Il criterio che consente di distinguere tra un’emulazione ed una cosa genuina è vedere se è implementata a livello hardware o a livello software. Un conto è simulare una rete neurale con un calcolatore, un altro conto è costruire una vera rete neurale in silicio. La differenza tra simulazione e realtà è che la simulazione si ha a partire da una macchina di Turing che viene programmata per simulare una macchina di non Turing, è proprio una differenza a livello computazionale, perché si devono mettere istruzioni affinché la macchina simuli un’altra macchina, e si tratta di istruzioni che non possono essere mai fedeli al 100%. Quindi se uno distingue la simulazione dalla realtà, ha la possibilità di dire che solo un calcolatore dotato di elevato coefficiente di perturbazione si può dire cosciente. Ed un calcolatore che ha l’architettura di una macchina di Von Neumann non può, per definizione, essere cosciente, perché ha un’architettura estremamente modulare. Il problema dell’inosservabilità non è empirico, ma teorico. La classe di ciò che si può osservare è determinata completamente dalla teoria di riferimento (teoria contestuale del significato, di Feyerabend, “Contro il metodo”) e non si può in nessun caso osservare qualcosa che non sia previsto dalla teoria. Il modo per modificare, migliorare o sopprimere questa teoria della coscienza è solo una: formulare teorie alternative che prevedono altre osservazioni e confrontarle. Il problema è che attualmente nessuna teoria è abbastanza sviluppata da rivaleggiare con quella di Tononi e che sia nello stesso tempo completamente diversa.

Tuttavia se fosse vera questa antitesi, allora il sistema cosciente, sia esso l’universo o altro, dovrebbe rispondere in maniera integrata. Inoltre quando precedentemente si è asserito che l’universo potrebbe essere cosciente si è tralasciato il fatto che i cervelli di per sé sono universo. Pertanto andrebbe definito il sistema stesso, le sue componenti e il cosa permette un’integrazione dell’informazione tale da correlarla logicamente. E il tutto dovrebbe essere traslato su un’integrità tale da garantire a livello proprio termodinamico, una differenziazione che ne permetta anche relazioni dialettiche tra gli stati possibili dei componenti, sicché possano formare una memoria, anche di breve termine. Poi ovvio, se si intende che di tutto se ne può misurare la coscienza allora è corretto, infatti si può misurare l’indice di perturbazione phi di una qualunque esistenza con più di uno stato, come per esempio la coscienza di una lampadina. Una teoria poi è valida dal momento che trova una connotazione logica con le altre teorie, come già detto nei precedenti articoli, rimanendo dunque l’ultima tra le teorie che non dispone di antitesi che la confutano. Per quanto riguarda gli strumenti invece ci sono e permettono di studiare l’integrazione dell’informazione relativa ad una determinata esistenza (mereologica tra proprietà). Poiché si assume che un sistema cosciente sia il cervello è possibile trovare corrispettivi analoghi che ne descrivano le proprietà che lo caratterizzano. Di conseguenza, a partire dagli studi di neuroscienze è possibile constatare cosa partecipa ad una maggiore integrità delle informazioni e cosa meno.

In tutto ciò non si constata tuttavia la validità induttiva di della teoria dell’informazione integrata di Tononi (IIT). Ed anzi, sembra una proposta originale e promettente. Il problema è che a monete non si può essere certi della necessità e della verità di IIT. Ciò consegue necessariamente, invece, dalla struttura induttiva dell’argomento. Se un argomento è induttivo-sperimentale non è deduttivo, ma se non è deduttivo ed è sperimentale allora non può avere conclusioni certe. Perciò lo scetticismo è comunque logicamente inoppugnabile perché di base sta solo affermando una differenza sostanziale fra qualsiasi conclusione di un’induzione sperimentale e quelle di una deduzione. Per estrema coerenza, quando ci riferiamo a risultati non deduttivi dovremmo sempre cominciare ogni asserzione con “forse[…]” e mai con un “conosciamo[…]” se e solo se si accettasse un criterio stringente di conoscenza come certezza (quindi come deduzione). In virtù di questo sorge una domanda interessante, ovvero come facciamo a confrontare argomenti deduttivi con argomenti induttivi-sperimentali? Non è una domanda totalmente fuori luogo, anche perché pertiene ad una possibile combinazione argomentativa fra la tesi di Chuch-Turing e l’argomento di IIT rispetto alla presunta incompatibilità fra macchina e coscienza.

Penso però che basti sapere che qualunque sistema neurale punti ad una coerenza per mezzo delle leggi di Hebb e che queste garantiscano pertanto maggiore integrità, tanto che uno stimolo contrastante possa destabilizzare la struttura dell'integrità, che non è statica ma è dinamica, portando a valutazioni più o meno significative a seconda del metodo assunto, sia esso induttivo o deduttivo. Dunque ad un'analisi di basso livello la IIT è valida, ma ad un livello cognitivo superiore come l'elaborazione dell'informazione in maniera deduttiva o induttiva, rimane una questione presso la quale non si può prescindere. Di conseguenza noi, anche se diciamo di qualcosa assumendo una forma induttiva, noi diciamo che conosciamo di fatto delle informazioni, poiché non si saprebbe conoscere direttamente le esistenze, non essendo esse stesse. Vi è differenza tra significato, significante e referenza. Quindi dire forse è un po' una forma di insicurezza psicologica rispetto all'informazione enunciata, la quale non può esistere integrata senza un elaboratore che sappia integrarla. Pertanto il problema non si pone dal momento che deve essere sempre verificata l'informazione per la sua validazione.

Tutto questo discorso per arrivare a dire che pur scrivendo un software che possa rasentare una mappatura di questa ontologia, fondata principalmente più che altro sull’architettura di Hebb anziché di Neumann, non si potrà mai verificare una reale coscienza rispetto al mondo, poiché per appunto, il mondo può essere compreso unicamente per mezzo di un’architettura che non è una simulazione, ma si verifica con relazioni logiche sussistenti e vincolate ad eventi fisici, comunque indipendenti dalla struttura sottostante. Un sistema più è integrato e meno ha necessità di dare rilevanza alle singole componenti poiché ciò richiede minori prestazioni. E la sua sicurezza va sempre a disintegrare l’integrazione poiché rende ciascun componente un modulo, ossia una funzione da utilizzare per evidenziare i problemi di vulnerabilità. Un sistema integrato è un sistema più veloce e che è anche meno soggetto ad incoerenze con i risultati che più raramente comunque vengono utilizzati come nuovi input, cosa che dà la possibilità ad un sistema di svilupparsi gerarchicamente anziché per nodi. E ciò significa porre una centralità. Un sistema integrato però non necessariamente è centralizzato, ad esempio il cervello seppur possiede una coscienza è abbastanza modulare e l’inconscio è indipendente da esso, facendo anzi talvolta dipendere la coscienza da esso in termini energetici. Alla fine la coscienza finisce per essere una sorta di iper-modulo. La centralizzazione di per sé è un rischio per l’integrazione, ed è per questo che la coscienza è molto difficile da raggiungere.

La realtà è costituita da aggregati mereologici che vengono indicati da proprietà. Le proprietà stanno nel cervello perché sono proposizioni chiuse e quindi quantificate, mentre la realtà è costituita da proposizioni aperte e senza quantificatore. Dire che la realtà è composta di proprietà non è sbagliato, è corretto se pensiamo che il livello di composizione della realtà più alto è quello della coscienza che compone le proprietà. Esternamente quello che abbiamo sono aggregati mereologici. Dal momento in cui si vogliono descrivere questi aggregati si ha bisogno delle proprietà, e per farlo già si entra nell’ambito della coscienza. Quindi le proprietà sono coscienti. A livello inconscio, quindi al livello degli aggregati mereologici, l’unica descrizione possibile è quella delle esistenze e della dialettica, perché come ben sappiamo l’essere non è una proprietà e la dialettica è la proprietà strutturale dell’essere. Ne consegue che se si parla delle esistenze senza indicare le proprietà delle esistenze stesse, ma solo le proprietà dell’essere, l’unica che è possibile sapere è che ciò che ci sta davanti è qualcosa di eterno, in dialettica, incorruttibile ed autocinetico. Le proprietà dell’essere sono dialettica più semata, ovverosia contrassegno. Parmenide nel suo poema filosofico “sulla natura” afferma che l’essere sia eterno, immobile ed immutabile, e che l’illusione del divenire e del mutamento è solo una tesi errata. Egli distingue tra due categorie di conoscenza: la via della verità (aletheia) e la via dell’opinione (doxa). La via della verità conduce all’essere e alla conoscenza vera, mentre la via dell’opinione conduce all’errore e alla falsa conoscenza. Più tardi, con filosofi come Simone Weil, si tornerà sullo stesso argomento traslando il discorso su personale/soggettivo come opinione e oggettivo come verità. La parola “semata” in particolar modo è usata da Parmenide per riferirsi alle apparenze illusorie del mondo sensibile, che sono il risultato della via dell’opinione; oggi parleremmo di pensiero induttivo. In particolare “semata” indica le apparenze che ci appaiono mutevoli e transitorie, come i colori, i suoni e le forme degli oggetti, che possono essere soggette ad un’illusione. Parmenide afferma che queste apparenze sono prive di realtà ontologica e che la verità si trova solo nell’essere immutabile ed eterno. In sintesi egli usa la parola per indicare l’illusione delle apparenze sensibili che nasconde la verità dell’essere eterno ed immutabile, quindi come detto prima, come contrassegno, come l’insieme dei tratti sensibili che permettono di distinguere sensorialmente una determinata esistenza in base alle proprietà espresse in relazione con quanto colto ed elaborato dall’organismo. Pertanto semata è un termine speciale per indicare le proprietà dall’essere, sta per “segni” e viene dal greco. L’ontologia è la teoria prima, cioè quella struttura del reale anteriore a qualsiasi proprietà. Non si tratta di una teoria fenomenologica, perché l’ontologia non provoca esperienze, ma è una teoria a priori di carattere logico. Uno non può fare esperienza della dialettica perché la dialettica è fuori dalle esperienze. Il piano ontologico è inaccessibile a qualsiasi esperienza, è fuori dalla fenomenologia.

La realtà è costituita da proposizioni aperte senza quantificatore perché la quantificazione avviene presso il cervello. Quantificare significa costruire delle proposizioni impegnate ontologicamente. La realtà di per sé non si può impegnare ontologicamente perché è la realtà. L’ontologia sostiene che esiste solo l’essere. La quantificazione non è dunque un aspetto determinato dalla termodinamica o da un’altra legge fisica, ma è un concetto che consiste nell’assegnare quantificatori alle variabili. Ed i quantificatori sono due e si presentano a priori rispetto a qualsiasi quantità numerica, pertanto possono essere solo di natura logica: il quantificatore esistenziale (“esiste”) ed il quantificatore universale (“per ogni”).

Ma dopo tutto questo discorso filosofico è giunto il momento di trovarvi un’applicazione: come si fa a distinguere ciò che esiste da ciò che non esiste?

Ipotesi: la società esiste ed essa è l’inconscio storico. Senza la storicità dell’essere, che è una questione deindividualizzante, non vi potrebbe esserci individuo, poiché l’individuo è il fine della storia. Si parte dalla personalità, si giunge ad un lento cammino verso la depersonalizzazione per mezzo della storia e si giunge infine all’individualità, che coincide (o ne è un passo precedente) con la comprensione dell’essere. Uscire dalla storia significa uscire dalla passione, uscire dal mito, significa ritrovarsi.

Conseguenza: la società fonda gli individui e porta di conseguenza alla loro individualizzazione.

Processo specifico teorizzato: dalla generalità della situazione sociale, si giunge all’individuale.

Antitesi: La società non è niente, essa ha lo statuto ontologico di un quadrato rotondo, è catalogato negli oggetti impossibili perché è contraddittorio. Un sortale viene così definito: A è composto di parti. Le parti di x hanno proprietà in comune. Queste proprietà hanno delle relazioni.

Questo significa che A innanzitutto deve essere un aggregato mereologico, cioè ontologicamente coerente. Le parti che compongono questo aggregato mereologico, una volta sottoposte ad analisi devono avere proprietà in comune. Non basta che abbiano solo delle proprietà, ma devono essere in comune, altrimenti se ogni parte avesse proprietà diverse abbiamo solo un aggregato, non un sortale. Le proprietà in comune devono avere delle relazioni. Le relazioni sono proprietà a due posti. Se la proprietà P(x), una relazione è P(x, y). Nel nostro caso abbiamo R(P, Q) dove P e Q sono proprietà. In questo modo abbiamo una proprietà strutturale, cioè una proprietà che delinea un certo ordine in cui disporre P e Q. Delinea una struttura ordinata di proprietà che sono possedute da parti. La società viola questa descrizione perché innanzitutto le proprietà in comune non hanno tutte delle relazioni. Le proprietà della singola individualità che si hanno in comune con gli altri non hanno alcuna relazione diretta con quelle di un altro. Allo stesso modo, può essere che almeno un individuo della società non ha proprietà in comune con gli altri. Inoltre la società basa la sua esistenza sulla negazione delle sue parti, quindi è contraddittoria.

Sintesi: per questo motivo non c’è nessuna società, ed essa non è né una parte dell’inconscio storico, né una parte di qualsiasi altra regione del sé. L’inconscio storico secondo Jung è preindividuale, è più primitivo dell’individuo, ed infatti non è manco personale. Esso essendo più primitivo dell’individuo risiede nella natura stessa e nella sua storia, ed è ciò che l’individuo eredita dalla natura e che nel tempo scopre man mano. Ma prima dell’inconscio storico vi è quello collettivo, quindi l’inconscio storico è una formulazione nonché espressione storica di ciò che esso eredita dal collettivo (gli archetipi), quindi i miti (da qui si potrebbe parlare degli studi di Frazier). Di conseguenza i miti sono l’eredità che viene trasmessa dalla natura tramite l’inconscio collettivo, il quale è insito nella natura stessa. È proprio perché il livello cognitivo si è evoluto dalla natura che essi vengono colti cognitivamente in seguito dagli animali, compreso l’uomo. E non esiste alcuna reale distinzione in natura tra significato e significante ma avviene anzi solo presso un sistema integrato come il cervello, ed infatti avviene esclusivamente (attualmente) per via cerebrale. Se la natura è provvista di significato, il metodo con la quale poterlo riscontrare analiticamente è il linguaggio cosciente, ossia l’utilizzo delle lingue rispetto al discorso sulla realtà, cioè la scienza. Il significato viene espresso come quantità relazionale dello spaziotempo, ma il significato insito nella natura è molto semplice. Esiste infatti un fondo di verità nei simboli. I popoli sono stati spinti dall’inconscio a venerare per esempio il sole, nel mito solare, ed a riconoscerlo come fonte di vita, anche in assenza di evidenza scientifica. A livello generale l’inconscio sa che il sole è fonte di energia e di vita e che in assenza di sole c’è la morte. Per questo ad esempio i miti di rinascita seguono il percorso del sole del tramonto e dell’alba. La vita religiosa di tutte le culture è regolata dal sole. Pure i cristiani non hanno potuto fare a meno di venerare il sole.

Altro esempio di come risolvere un problema logico rispetto alla coscienza utilizzando le tesi proposte fin’ora: Ipotesi: a. Non so di non essere un cervello in una vasca. b. Se non so di non essere un cervello in una vasca, allora non so se ho una mano. c. Per modus ponens, non so di avere una mano.

Come si può sapere di non essere qualcosa se non verificandolo? Esistono questioni inverificabili? E cosa assicurerebbe non avere una mano? Lo scetticismo ammette solo incertezze, non certezze. E non si ha nemmeno la certezza di avere incertezze.

Qui però si parla di sapere. Gli argomenti scettici funzionano così: non è possibile sapere se è tutto una simulazione. Se non si può sapere che tutto è una simulazione, allora non si può sapere qualsiasi verità ordinaria sul mondo, come che si ha una mano, che esistono gli alberi e così via. Per confutare gli argomenti scettici bisogna confutare la prima premessa. Una volta confutata quella, il resto crolla da sé. Nel caso del cervello in una vasca la confutazione è facile: il nostro cervello possiede delle aree specifiche che ci fanno capire se siamo noi a muoverci o il movimento deriva dall’esterno. La macchina della simulazione dovrebbe essere capace di prevedere al 100% ogni futuro nostro movimento per attivare quelle aree, cosa che è impossibile. Per questa ragione prima o poi ci si rende conto che alcuni movimenti sono indotti e che c’è qualcosa che non va. È impossibile perché la macchina dovrebbe essere capace di prevedere con un’accuratezza del 100% ogni nostra risposta volontaria all’ambiente e attivare quelle aree di conseguenza. Come può una macchina prevedere ogni singolo movimento che uno può esercitare? Affinché uno non si renda conto di essere un cervello in una vasca occorre che la macchina preveda i movimenti e vada ad attivare le aree del monitoraggio dell’azione esattamente nel modo in cui dovrebbero essere attivate se l’azione si verificasse per davvero, un cervello in una vasca svilupperebbe dei deliri parafrenici. Per questo per quanto riguarda gli argomenti scettici è inutile trovare una confutazione a priori, si possono confutare solamente entrando nel merito.

Un altro argomento scettico è quello che non è possibile sapere se stiamo sognando oppure no. In realtà è possibile saperlo, perché i sogni seguono un ordine simbolico, la realtà no. Quindi anche in questo caso lo scetticismo si sconfigge.

Allo stesso modo si può sconfiggere l’argomento scettico più generale, quello della simulazione, dimostrando che se la realtà fosse una simulazione sarebbe digitale, e quindi non sarebbe possibile per nessun motivo uscire dall’insieme, dal momento che il processo di digitalizzazione, a prescindere dalla base del calcolatore, è finito. Il fatto stesso che siamo capaci di studiare verità matematiche e di studiare la cardinalità superiori all’unità. Del resto ci basta sapere che possiamo dimostrare il teorema di Cantor per sapere che non siamo in una simulazione. In una simulazione digitale ogni proposizione che ha come modello un insieme non numerabile sarebbe decidibile. Invece noi non possiamo dimostrare che l’insieme delle parti di N ha la stessa cardinalità del continuo. Per potere sostenere l’ipotesi della simulazione è necessario anche contemporaneamente sostenere l’ipotesi secondo cui le verità matematiche non esistono. E non semplicemente nello spaziotempo, ma che non esistono proprio. Cosa che si può sostenere solamente se si è nichilisti ed ignoranti, in quanto si va a negare a priori qualsiasi dimostrazione (presupponendo tuttavia di asserire questa tesi come vera, contraddicendo il sistema stesso assunto).

Un altro esempio: Ipotesi: ognuno di noi è un essere comunicante, così come è un essere pensante, emotivo e sociale. La comunicazione non va considerata solo come un mezzo e uno strumento, bensì come una dimensione psicologica costitutiva di ciascuno di noi. Non possiamo scegliere se essere comunicanti o meno, ma possiamo scegliere se ed in che modo comunicare. La comunicazione è un’attività eminentemente sociale. Per definizione si ha comunicazione solo all’interno di gruppi (o comunità), poiché il gruppo rappresenta una condizione necessaria ed un vincolo per la genesi, l’elaborazione e la conservazione di qualsiasi sistema di comunicazione. A sua volta, quest’ultimo alimenta, influenza e modifica in modo profondo la vita stessa del gruppo. Socialità e comunicazione costituiscono due dimensioni fra loro distinte ma intrinsecamente interdipendenti, che si sono evolute e che si evolvono in modo congiunto, con un andamento a spirale e senza fine, attraverso un processo di continui rimandi.

Analisi ed antitesi: studiando il comportamento delle scimmie, si può dedurre che essere abbiano sviluppato un io come quello degli umani. L’io è più vecchio dell’uomo e le scimmie ne hanno uno che non è né qualitativamente né quantitativamente diverso da quello degli uomini, ed anzi è probabilmente più forte. Da alcuni comportamenti si può persino riscontrare la presenza di alcuni miti nelle scimmie, possiedono infatti miti somatici ed anche qualcosa di analogo al mito del sacerdote. La concezione del linguaggio come supplemento è pertanto un tentativo dell’uomo di tornare scimmia, perché aliena da sé il discorso. La formula “ognuno di noi è” serve per estendere le proprie brame narcisistiche, ed è un modo per introdurre il biopotere. Si tratta di una forma di condizionamento mentale molto forte, perché attraverso il linguaggio si plasma la natura dell’altro. Se si dice “la tua natura è x” e non si fa x, si può venire accusati di essere stupidi o devianti come successiva mossa. Si chiama infatti “esercizio liberale del potere” perché invece di portare a fare una cosa perché lo si vuole, lo si fa anzi credere che la fa perché la si vuole. Un’altra tecnica poi è quella della definizione socialista: si prende una qualunque capacità mentale o comportamentale e la si definisce sociale. Quando si dice che ognuno è sociale, che la comunicazione è un prodotto della società, e che la comunicazione definisce la soggettività, per proprietà transitiva si dice che la società plasma l’individuo attraverso pratiche discorsive. Con questo si intende dire che la società si fonda come a priori pratico. L’uomo vuole trasformare il linguaggio in uno strumento perché in questo modo non lo sente come una parte del corpo e se ne può disfare quando vuole. Il discorso indebolisce l’io necessariamente, le scimmie non lo hanno, dunque fungono inevitabilmente da modello per l’uomo. Ma l’ipotesi si riferisce agli uomini e non alle scimmie. Michel Foucault parla del concetto di “biopotere” in diversi scritti, ma in particolare arriva a svilupparlo in maniera sistematica nel suo corso di lezioni al Collège de France, tra il 1977 e il 1978, intitolato “Securité, territoire, population”. In esso analizza il legame tra potere e conoscenza nelle società contemporanee, concentrandosi sul ruolo del potere nella gestione e nella regolamentazione delle popolazioni. Egli sostiene che il potere non è solo un rapporto di dominio tra governanti e governati, come aveva suggerito Hegel nella sua dialettica servo-padrone, ma è piuttosto diffuso in tutto il tessuto sociale ed agisce attraverso una serie di tecniche e strategie che disciplinano i corpi e le menti degli individui. In questo contesto, Foucault, introduce il concetto di “biopotere” per descrivere proprio il modo in cui il potere si esercita sulla vita degli individui e delle popolazioni, gestendo la loro salute, il loro benessere e la loro riproduzione. Il biopotere si esplica attraverso una serie di istituzioni e pratiche che si occupano pertanto di regolare la vita biologica degli individui, come ad esempio la medicina, la psichiatria, l’igiene pubblica, la nutrizione e la sessualità. Tali pratiche sono funzionali alla gestione e al controllo della vita e della salute delle popolazioni, ma allo stesso tempo creano dei dispositivi di potere che si infiltrano nella vita quotidiana degli individui e ne influenzano le scelte ed i comportamenti. In sintesi, il concetto di biopotere è per Foucault una nuova forma di potere che si esercita sulla vita degli individui attraverso la gestione ed il controllo dei loro processi biologici e fisiologici, creando così nuove forme di soggezione e disciplinamento (proprio come “l’uomo è un animale sociale” o “la natura dell’uomo è x”). Rispetto al potere esistono poi tre forme di condizionamento:

  1. Biopotere.
  2. Reiterativa.
  3. Bipensiero.

Queste magari saranno approfondite in futuro, per il momento ci basta sapere che esiste una classificazione del potere e che questo agisce soprattutto sulla variazione dell’informazione dati dei presupposti logici. La concezione totalmente erronea che si ha del linguaggio nell’ipotesi, ovvero che lo si definisce come un mero dispositivo di comunicazione esclusivamente interpersonale, porta il linguaggio stesso, inevitabilmente, ad essere posto su un piano sociale o meglio, delineato da un concetto “universale” che non può avere alcuna realtà concreta poiché adialettico: seguendo tale percorso si denota come si riduce il discorso soltanto ad un sistema di comunicazione nel quale s’insinua, prevalendo, una sfera completamente soggettiva dei comunicanti volta ad una relazione con un fine pressoché tecnico. Dunque paradossalmente il dialogo è determinato dalla relazione delle controparti che si collegano in un “tutto organico”, ovvero dal gruppo fino alla costituzione della società, che ha la presunzione di avvalersi della facoltà di produrre il linguaggio. Questo equivale a dire che esso è conseguenza della società. Ma in realtà, l’essere, il logos, come principio non è un prodotto, non può essere fondato da alcunché, ed inoltre non è una proprietà di alcuno, poiché è tramite chi si pone la domanda sull’essere che esso può trovare il suo discorso nel quale esplicitarsi liberamente. Quindi la società mediante il potere discorsivo tenta di estrapolare il concetto stesso di individualità e demonizzarlo, per circoscrivere tutto in un agglomerato sociale nel quale l’individuo sarà portato a deindividualizzarsi verso l’alienazione. Questo potrebbe avere come scopo la frammentazione che vige alla base del potere poiché essa conduce inevitabilmente all’infantilismo, che è una condizione altamente manipolabile. Epistemologicamente la società si pone come dimensione trascendentale che si dà a priori di ogni conoscenza. La differenza tra Kant e la realtà della società è che la società si pone come a priori pratico. Significa che la conoscenza si produce con il comportamento e non con il pensiero. E ciò significa che la società non ha accesso alla mente, non può comprendere uno stato mentale, e per questo motivo essa riduce tutto ai comportamenti. Un individuo sa che un altro individuo ha dei pensieri. La società non può saperlo, l’istituzione è comportamentale. Ad esempio, lo stato può agire solo sui corpi e sui comportamenti, e non ha un accesso diretto alla mente, non potrà mai averlo: il controllo dei neuroni avviene sempre a posteriori e con una latenza. Le specie di scimmie, appartenendo al nostro stesso ordine, hanno delle sezioni anatomiche cerebrali con delle capacità cognitive “superiori” che si avvicinano leggermente verso le nostre, seppur rimangano strettamente limitate. Dunque il limite si può evidenziare anche nella concezione di temporalità come storia, che però è naturalmente estendibile alla maggior parte degli animali ad esclusione dell’uomo, ovvero come l’incapacità di potere comprendere la spaziotemporalità della realtà come espressione dialettica. Determinate specie di scimmie arrivano a comprendere per poi comunicare mediante una tipologia di linguaggio come quello dei segni, dunque è possibile che queste specie possano sviluppare anzi una concezione di tempo ma con l’unica differenza che tale temporalità nella scimmia sia minima, poiché essa è priva di un livello discorsivo che possa portarla ad una comprensione discorsiva della realtà come accade nell’uomo, perché vincolato. La storicità è un fattore critico nella comprensione dell’essere e poiché la storia è discorso, nell’uomo essa ha possibilità di essere espressa andando a superare l’io. Al contrario, in animali che possono sviluppare una concezione labile di tempo, ma sono privi di capacità discorsiva, la spazio-temporalità non trova modo di essere esplicitata, da qui ne può derivare che in tali contesti l’io sia più forte. E questo risulta essere confermato dagli studi etologici sulle scimmie. Infatti anche se apprendono una lingua dei segni la usano sempre in modo contestuale, ma mai per esprimere ciò che pensano. Per loro il linguaggio è un comportamento che serve per ottenere delle cose. Diciamo che la società pensa come pensa la scimmia, infatti la componente storica manca nella scimmia nonostante alcune di queste sono in grado di costruire utensili e di apprendere richiami specifici per tipi di predatori. Hanno provato ad usare linguaggi superiori al linguaggio dei segni per potere riscontrare ulteriori effetti, senza tuttavia trovare risultati significativi. Innanzitutto le scimmie non hanno un apparato vocale adatto perché nell’uomo la posizione eretta ha permesso alla laringe di scendere così da permettere la formazione del tratto vocale. Le scimmie possono imparare lingue gestuali. Ed infatti hanno insegnato la lingua dei segni che usano anche gli uomini sordi, che è una lingua come tutte le altre. Il problema non è nella lingua, ma nel concetto che si ha della lingua. Le scimmie di per sé sanno solo parlare pratico. A livello neuroscientifico non hanno dei lobi frontali abbastanza sviluppati, ma il cervello non differisce per le parti. E questa caratteristica di comprendere l’essere, e pertanto riguardo al superamento dell’utilizzo per oggetti, non si va ad ottenere con un allenamento adeguato in quanto i caratteri non si ereditano in modo lamarkiano, l’utilizzo ha solo una pressione selettiva. Si potrebbe pertanto raggiungere un livello decente di sviluppo unicamente per mezzo dell’ingegneria genetica.

Antitesi all’antitesi: la conversazione è dialettica perché bisogna sintetizzare due punti di vista e pertanto la dialettica è contenuta nella società.

Antitesi rispetto a ciò che è stato precedentemente indicato: si parte dal presupposto che il discorso sia una pratica sociale. Si può dire che la società abusi del discorso, ma non che questo sia sociale per forza. Il discorso, così facendo, si riduce ad un filtro nel quale si cristallizzano le opinioni dei comunicanti, andando di conseguenza ad organizzare la struttura di base della comunicazione. Viene proprio fatto intuire come in tal senso il termine sia inteso come l’organizzazione di singole parti per costruire un “intero”. Gli si dà una natura puramente sintattica, ed infatti se ne potrebbe persino derivare che non è importante che ciò che viene detto sia vero ma che debba essere plausibile. Ed una teoria del genere può fare solo che danni, essendo finalizzata alla legittimazione della società, destituendo il criterio di verità.

Ma come è nata l’esigenza della temporalità nell’uomo? Cosa ha fatto sì che fosse necessaria l’evoluzione verso il confronto con i propri ricordi? Una possibilità potrebbe essere l’assurdità del passaggio dall’essere al non essere e viceversa (ex nihilo), ma potrebbe essere benissimo un risultato a posteriori. Potrebbe pertanto essere una questione totemica e di miti, poiché essi sono quelli che da una parte hanno costruito la realtà e hanno fatto interessare i giovani al passato.

L’esigenza della temporalità però nell’uomo c’era già, perché essa si è sviluppata ben prima della specie umana. Molti animali hanno bisogno di avere una buona memoria per riconoscere i nidi e le tane, o anche e soprattutto per riconoscere le fonti di cibo e saperle localizzare. Le capacità mnestiche esistevano già prima dell’uomo e molti uccelli o scimmie ad esempio hanno capacità di memoria che superano enormemente quelle umane. Gli altri animali quindi riescono ad avere una loro storia, ma non la sanno raccontare perché non la riescono a pronunciare, non parlando. Basterebbe infatti che si sviluppi un linguaggio per fare in modo che inizino a formulare una loro cultura, tramite selezione, e questo potrebbe portarli a fare interagire con umani, divenendo sempre più coscienti. Se trattiamo la temporalità come lo scandire del tempo e dunque del definire il tempo come un concetto quantitativo, si può dire che l’esigenza nell’uomo è stata scoperta mano a mano tramite l’osservazione della natura nonché attraverso i culti riservati ad essa; un esempio elementare potrebbe essere il già citato culto solare. Questi eventi avvengono grazie alla pre-esistente simbologia mitica dovuta all’inconscio collettivo, nonché storico, quindi è una naturale conseguenza della questione dei miti. Alcuni animali hanno addirittura già delle forme di cultura; le orche per esempio sviluppano strategie di caccia che dipendono dal contesto in cui vivono e la trasferiscono ai discendenti. La questione dei miti è però un’esigenza innata nell’uomo per via del fatto che già esisteva negli animali. Poi c’è tutto quello che dice Heidegger in “essere e tempo”, cioè che la temporalità è la dimensione fondamentale della cura, che a sua volta è la dimensione fondamentale dell’esserci. Quindi l’osservazione della natura va contestualizzata in una condizione pre-esistente. Anche gli stessi uomini sono animali, ed infatti nel culto solare scandivano la caccia, l’agricoltura e tutte le faccende quotidiane in base all’attività solare. L’influenza non era di certo circoscritta solamente al sole, ma chiaramente si estendeva anche ad astri e pianeti. Gli uomini primitivi avevano un sistema astronomico molto sviluppato ed erano in grado di fare delle previsioni abbastanza accurate pur con una matematica rudimentale. Questo perché per loro lo studio del tempo coincideva con lo studio degli astri, principalmente perché credevano nell’astrologia e nell’influenza dei moti dei pianeti sulla vita umana ed animale. Quindi la misura del tempo oltre ad avere una misura religiosa per quanto riguarda i culti, ne aveva anche una scientifica. In realtà non si può nemmeno facilmente distinguere tra le due forme, perché quella scientifica serviva a quella religiosa e viceversa. In ogni caso, la misura del tempo è sempre stata un’attività fondamentale per gli uomini, non a caso le meridiane furono tra i primi oggetti inventati, e gli uomini primitivi si diedero parecchio da fare per costruire osservatori astronomici.

Abbiamo affrontato in questo articolo la questione della coscienza e dei suoi casi limite, ponendo degli esempi che hanno portato alla decostruzione di teorie false abbastanza diffuse oggigiorno. Nel prossimo articolo andremo a trattare la questione della misura, poi ancora qualche argomento di supplemento ad un ontologia decentralizzata e fondata sull’essere, e finalmente poi andremo a culminare nel succo del discorso: l’inconscio ontologico, cui seguirà la logica ontologica.

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