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La struttura ontologica dei significati: le relazioni referenziali

In questo articolo si parlerà di filosofia analitica al fine di strutturare una logica ontologica per proprietà che introduca di conseguenza ad una gerarchia che parta dall’essere per arrivare ai valori di proprietà attribuiti a ciascuna proprietà. Qui si tratterà pertanto del tema centrale di questa disciplina filosofica, nonché delle questioni del significato e del riferimento. In particolar modo affronteremo le teorie di Kripke e di Quine, rispondendo a quesiti come cosa sia il significato e a come ci riferiamo a qualcosa quando parliamo.

L'inizio della filosofia del linguaggio, così come la conosciamo, viene fatto risalire ai lavori pionieristici di Gottlob Frege (1848-1925). Anche se è possibile individuare dei precursori di tale filosofia in precedenza, ad esempio nella distinzione dei giudizi di Kant tra giudizi sintetici e giudizi analitici nella Critica della ragion pura, è con Frege che il linguaggio diventa un problema filosofico centrale per tutti coloro che hanno affrontato questo argomento, da Russell in poi. Il suo contributo più importante sull'argomento fu un articolo del 1892, "Über Sinn und Bedetung", in cui individuò quella che è stata la distinzione terminologica fondamentale diventata il fondamento della disciplina: la distinzione tra "sinn" e "bedetung". Queste due parole, che nel linguaggio ordinario avevano lo stesso significato (il loro significato era proprio "significato"), in filosofia della scienza assumono significati completamente diversi. "Sinn" viene tradotto con "senso", mentre "bedetung" viene invece tradotto con "denotazione" o "riferimento".

Il senso viene concepito come il "modo di darsi dell'oggetto", ovvero il modo in cui il significato ci viene presentato e che comprende un particolare punto di vista su di esso. D'altra parte, il significato è ciò che viene denotato. Questa distinzione ci permette di comprendere da cosa sia determinato il significato per Frege. Una espressione (verrà illustrata in seguito la differenza tra termini singolari ed enunciati) ha un senso. Il senso permette di denotare un'entità extralinguistica (un oggetto del mondo), e questo oggetto denotato è il significato dell'espressione. In questo passo, Frege definisce il rapporto di comprensione di un'espressione linguistica come segue:

"il senso di un nome proprio viene afferrato da chiunque conosca a sufficienza la lingua o il complesso di segni cui esso appartiene. In questo modo, il significato, posto che ve ne sia uno, viene pur sempre illuminato da un lato solo; la conoscenza del significato da tutti i lati comporterebbe che per un senso dato qualsiasi si fosse immediatamente in grado di dire se gli spetta oppure no. A questa conoscenza non perveniamo mai”. (Frege, 1892, il corsivo è mio)

In questo passo emerge la relazione di afferramento, un punto cruciale con cui possiamo caratterizzare la teoria della comprensione linguistica di Frege. Come vedremo nel prossimo paragrafo, Putnam criticherà questa teoria poiché sostiene che in Frege l'atto stesso di afferramento è un atto psicologico individuale e che quindi "capire una parola (conoscere la sua intensione) equivalga ad essere in un determinato stato psicologico" (Putnam, 1978).

In realtà, sebbene l'afferramento possa essere considerato un atto psicologico, in Frege il senso (sia dei termini singolari che degli enunciati) è considerato oggettivo, in quanto rappresenta il possesso comune di molti e non è parte o modo della psiche individuale. Il senso è rappresentato da un'immagine interna, che è il risultato di atti compiuti dall'individuo, ed è caratterizzato da instabilità e fugacità sia tra gli individui che all'interno dello stesso individuo. Frege ha anche stabilito il senso e il significato degli enunciati: il senso di un enunciato è il pensiero espresso, ed è oggettivo, mentre il significato consiste nella denotazione del valore di verità dell'enunciato stesso, che può essere Vero o Falso. In Frege, sia i nomi propri che le descrizioni definite denotano un oggetto individuale. Al contrario, Russell sostiene che i nomi propri sono delle descrizioni definite abbreviate e, attraverso la quantificazione, dimostra di poter eliminare i termini singolari.

“Siamo così condotti a riconoscere il valore di verità dell’enunciato quale suo significato. Per valore di verità di un enunciato intendo la circostanza che sia vero o falso. Non vi sono altri valori di verità”. (Frege 1892) corsivo nel testo.

Analogamente ai termini singolari, il Vero e il Falso sono considerati oggetti per Frege, e gli enunciati sono considerati nomi del Vero o del Falso. Il predicato viene trattato come una funzione, il cui senso è un concetto, e non come un'estensione, come successivamente sarà trattato dagli autori. Il predicato "R" nella frase "la mela è rossa" non è in sé un oggetto, ma è una funzione che assegna l'individuo denotato da "la mela" ad un valore di verità se l'individuo cade sotto il concetto "è rossa". In questo modo, il significato della frase è garantito come un oggetto, e il significato di una frase è determinato solo dal modo in cui sono combinate le sue parti, mantenendo il principio di composizionalità stabilito da Frege.

Una critica che potrebbe essere mossa a Frege è che egli ha concepito il processo in modo inverso. Si potrebbe invece sostenere che l'estensione provoca un cambiamento del significato di un termine e che questo cambiamento potrebbe anche non riflettersi in un cambiamento dello stato mentale del soggetto. Questa posizione è sostenuta da Kripke e Putnam, anche se con due modelli teorici differenti. Per entrambi, il riferimento non è fissato da un senso ma è fissato direttamente senza la necessità del senso fregeano come tramite. Questa è la teoria del riferimento diretto, ed è stata innanzitutto articolata da Kripke nel suo testo "Naming and Necessity" partendo dai nomi propri. Kripke, partendo dall'osservazione secondo cui Frege considera i nomi propri e le descrizioni definite come equivalenti, riprende la distinzione di Donnellan secondo cui le descrizioni definite possono avere un uso attributivo o un uso referenziale. Questo comporta che chi sostiene la teoria delle descrizioni definite debba concepirle come una verità necessaria circa il portatore di quella descrizione. Tuttavia, adottando un approccio basato sulla logica intensionale, Kripke sostiene che se si applica il pensiero controfattuale postulando dei mondi possibili in cui gli eventi si sono sviluppati in modo diverso, le descrizioni definite non riescono più a riferirsi al medesimo individuo attraverso i mondi non potendo più valere come verità necessarie.

L'individuazione attraverso mondi è possibile soltanto con il nome proprio che è per questo definito da Kripke come un "designatore rigido":

"quando dico che un designatore è rigido e designa la stessa cosa in tutti i mondi possibili, intendo dire che esso, così com'è usato nel nostro linguaggio, sta per quella cosa quando noi parliamo di situazioni controfattuali" (Kripke, 1972), il corsivo è nel testo.

Sulla base di questa strategia argomentativa, Kripke mostra da un lato che le descrizioni definite non descrivono in modo univoco le proprietà di un individuo e, dall'altro, che non è nemmeno possibile utilizzarle per indicare nel mondo un individuo di cui si vuole parlare. Questo articolo illustra due punti importanti: il primo viene mostrato attraverso l'esempio di Nixon, in cui si sostiene che se lo si identifica con colui che ha vinto le elezioni diventando presidente degli Stati Uniti nel 1968, si può immaginare un mondo possibile in cui egli non si sia mai dedicato alla politica, rendendo quindi la descrizione contingente. Il secondo punto viene illustrato attraverso l'esempio di Gödel, in cui si immagina che quando ci riferiamo a lui come al matematico che ha scoperto i teoremi di indeterminazione, in un mondo possibile egli potrebbe aver rubato la dimostrazione da un altro individuo. Rilevate le anomalie inerenti alle descrizioni definite, egli propone l'abbozzo di una teoria che è stata poi chiamata teoria del riferimento "storico-causale" proprio perché definisce il rapporto tra portatore del nome e nome nei seguenti termini:

"ha luogo un battesimo iniziale. In questo caso, un oggetto può essere denominato mediante un'ostensione, oppure il riferimento del nome può essere fissato mediante una descrizione. Quando il nome "passa da un anello all'altro", il ricevente del nome, secondo me, deve avere l'intenzione di usarlo con lo stesso riferimento di colui dal quale lo ha appreso." (Kripke 1972)

Kripke propone una teoria del riferimento "storico-causale" che mostra come le descrizioni definite non descrivano in modo univoco le proprietà di un individuo e che non è possibile utilizzarle per indicare un individuo. Secondo questa teoria, il riferimento di un nome è stabilito durante il "battesimo iniziale", e viene trasmesso da parlante a parlante attraverso una catena storico-causale. In questo modo, si può riferire a qualcosa e dotare un nome di significato in virtù del suo rapporto causale con il riferimento, e non con una descrizione di proprietà. Putnam ha esteso questa teoria ai nomi di genere naturale, criticando lo psicologismo e l'idea che i significati siano equivalenti a stati mentali particolari. Egli sostiene che sono le proprietà fisiche reali del mondo a determinare il significato di un nome, non l'intenzione o le proprietà psicologiche dell'individuo. Putnam costruisce un esperimento mentale in cui esiste una Terra gemella che è del tutto identica al nostro pianeta, tranne che per il fatto che la sostanza che chiamiamo "acqua" (H20) è sostituita da una sostanza diversa (XYZ) che mantiene le stesse proprietà superficiali. In questo esperimento, gli abitanti di Terra Gemella si riferiscono alla loro sostanza come facciamo noi, ma indicano una sostanza diversa. Putnam sostiene che i significati sono "fuori dalla testa" e dipendono dalle proprietà fisiche reali del mondo. In sintesi, questa linea di pensiero suggerisce che ci sono due opzioni riguardo al trattamento dei termini di genere naturale. La prima opzione consiste nel considerarli come segnali puri, come ad esempio i pronomi personali "io", "mio" e "qui". La seconda opzione, preferita da Putnam, sostiene invece che il significato di un termine sia determinato dall'estensione dell'oggetto reale cui si riferisce. Ad esempio, il termine "acqua" significa acqua perché si riferisce ad una sostanza che è stata precedentemente definita con una definizione ostensiva. La maggior parte dei parlanti non possiede una definizione precisa di ogni termine, ma utilizza stereotipi, ovvero convenzioni sociali che indicano come un oggetto dovrebbe apparire, comportarsi o essere. Non è necessario che tali stereotipi siano accurati, ma sono sufficienti per la comunicazione all'interno di una comunità di parlanti. Tuttavia, gli esperti sono in grado di identificare una sostanza o un nome di genere naturale al di là degli stereotipi, grazie alla conoscenza approfondita e alla competenza specifica nel campo. Secondo l'ipotesi di Putnam, la divisione sociale del lavoro porta ad una divisione del lavoro linguistico, che genera degli esperti specializzati in sottoinsiemi specifici della lingua. Come affermato da Putnam nel 1978:

"Ogni comunità linguistica esemplifica il tipo di divisione del lavoro linguistico ora descritto; cioè possiede almeno alcuni termini tali che i "criteri" ad essi associati sono noti solo a un sottoinsieme dei parlanti che acquisiscono i termini, e il cui uso da parte di altri parlanti dipende da una cooperazione strutturata tra questi e i parlanti appartenenti ai sottoinsiemi rilevanti." (Putnam, 1978)

In altre parole, alcuni termini sono noti solo ad una porzione ristretta di parlanti che acquisiscono questi termini, mentre l'uso da parte di altri dipende dalla cooperazione strutturata tra questi parlanti e quelli appartenenti ai sottoinsiemi rilevanti. Secondo Putnam, l'estensione di un termine non è determinata dallo stato psicologico degli individui, ma dallo stato sociolinguistico del collettivo linguistico a cui appartiene il parlante. In questo modo, l'uso di termini specifici dipende dal contesto socio-linguistico in cui sono utilizzati.

La teoria del riferimento diretto sostiene che il significato può dipendere dall'estensione e che il riferimento viene fissato direttamente attraverso una catena causale di eventi. Questa teoria trasmette l'immagine del linguaggio come una serie di etichette attribuite alle cose. Quine nel suo articolo "Ontological Relativity" definisce questa teoria come "il mito del museo" e spiega come sia sbagliato stabilire una corrispondenza diretta tra una parola e un riferimento sia a livello del significato che a livello del riferimento. In modo simile a Putnam, anche Quine costruisce un esperimento mentale con cui sostenere la sua tesi, ma a differenza degli autori che sostengono il riferimento diretto, egli non necessita di postulare l'esistenza di mondi possibili e di appellarsi alla semantica intensionale perché l'esperimento mentale che propone è quello della traduzione radicale. Quine immagina un linguista che si trova a dover tradurre le espressioni linguistiche di un popolo di cui non sa nulla. Il linguista può farlo basandosi esclusivamente sul comportamento parlanti. Quine usa l'esempio del coniglio per mostrare come il linguista può stabilire il significato della parola "gavagai" e scegliere come tradurla, basandosi sulle ipotesi analitiche sulla forma della lingua che ha incontrato. In questo modo, il linguista:

"elabora un sistema per tradurre contestualmente nell’idioma indigeno le nostre pluralizzazioni, i nostri pronomi, i nostri numerali, la nostra identità e i dispositivi connessi. Elabora tale sistema mediante l’astrazione e l’ipotesi. Astrae particelle e costruzioni indigene da enunciati indigeni osservati, e cerca di associarle variamente a particelle e costruzioni italiane.". (Quine 1968, il corsivo è mio)

Il linguista, quindi, si basa sulle sue ipotesi di traduzione per attribuire determinate espressioni indigene a delle costruzioni, che potrebbero portare alla creazione di manuali di traduzione incompatibili tra di loro, tutti ugualmente corretti. Esclusivamente in base alle sue ipotesi analitiche, il linguista potrebbe tradurre gavagai come "coniglità", "parte non staccata di coniglio" o in molti altri modi senza dover tenere conto delle esperienze che potrebbero falsificare le sue ipotesi. Il sistema di traduzione è un apparato olistico basato su ipotesi analitiche, quindi potrà sempre reagire ad una esperienza recalcitrante aggiustando un'altra delle ipotesi, mantenendo il manuale coerente e valido. La preferenza degli occidentali per la traduzione "coniglio" è dovuta all'abitudine di un sistema metafisico che presuppone degli enti dotati di una sostanza, che agli indigeni potrebbe essere completamente sconosciuto. Tutti i manuali di traduzione costruiti saranno tutti ugualmente validi perché, con la sua assunzione comportamentista, Quine esclude che il significato sia una proprietà mentale e, non essendoci altro che il comportamento degli indigeni su cui basarsi, la traduzione resterebbe indeterminata. Questa indeterminatezza non riguarda solo il significato in sé, ma anche il riferimento. Secondo Quine, il riferimento ha senso solo in relazione a un sistema di coordinate relative costituito da un linguaggio di sfondo di riferimento. Quine scrive:

"Porre quesiti sul riferimento in un qualsiasi modo più assoluto sarebbe come chiedere la posizione assoluta o la velocità assoluta, anziché la posizione o la velocità relative a un dato sistema di riferimento. Somiglierebbe anche molto a chiedere se il nostro vicino non possa vedere sistematicamente tutto capovolto, o in colori complementari, senza che sia mai possibile scoprirlo." (Quine, 1968)

Secondo il testo, il riferimento risulta essere imperscrutabile e ambiguo, il che lo rende lontano dall'essere il faro con cui si può risolvere il problema del significato. Anche all'interno della stessa lingua, i problemi della traduzione possono persistere. I teorici del riferimento diretto, cercando di evitare le critiche di Quine sulla nozione tradizionale di riferimento, cadono in una forma alterata di verificazionismo. Secondo questa teoria, il significato di un enunciato coincide con il metodo con cui ci riferiamo al mondo per stabilire il valore di verità dell'enunciato. Una differenza nell'estensione è considerata una differenza nel significato, e per stabilire questa differenza è necessario che un sottoinsieme della popolazione sia in grado di sviluppare dei metodi da esperti con cui si possa stabilire il confronto. Questo criterio proposto dai teorici del riferimento diretto è un criterio di demarcazione tra il gergo scientifico e il linguaggio ordinario, in quanto quest'ultimo si basa su stereotipi definiti socialmente e non su un metodo da esperti. Le critiche di Quine sull'imperscrutabilità del riferimento e sulla teoria del verificazionismo sembrano inevitabilmente rivolte anche alla teoria del riferimento diretto. Come Quine stesso afferma nell'articolo "Two Dogmas of Empiricism":

"Qualunque asserto può essere considerato vero qualunque cosa succeda, se facciamo aggiustamenti sufficientemente drastici altrove nel sistema. Persino un asserto molto vicino alla periferia (vicino all'esperienza) può essere considerato vero di fronte a un'esperienza contraria adducendo a giustificazione l'allucinazione o correggendo certi asserti del tipo chiamato leggi logiche." (Quine, 1951)

Del resto, basta addentrarsi nella storia della scienza per scoprire che coloro che dovrebbero essere responsabili di fissare il riferimento possono, seppur scienziati, dare un riferimento diverso allo stesso termine: Lavosier attraverso i suoi esperimenti arrivò ad individuare l’ossigeno, quando per Priestley rimase aria deflogistizzata. Si può quindi concludere che la cecità della teoria del riferimento diretto nei confronti dei paradigmi khuniani o dell’assetto teorico di base su cui poggia l’attività di ricerca sia spiegabile proprio trattandolo come una specie di empirismo. Come l’empirismo, infatti, esso condivide il dogma del riduzionismo secondo cui è possibile controllare con l’esperienza le singole asserzioni – ciò è alla base della sua concezione “verificazionista” del riferimento – e inevitabilmente è affetto anche dal secondo dogma che Quine descrive come la distinzione netta tra analitico e sintetico, e questo secondo dogma deriva dal primo perché:

“fintanto che si ritiene che abbia un significato in generale parlare di conferma o confutazione di un asserto, sembra che abbia significato anche parlare di un tipo limite di asserto che è confermato in modo vuoto, ipso facto, qualunque cosa succeda; e un asserto del genere è analitico.” (Quine 1951)

L'articolo di Quine esamina principalmente il secondo dogma, che ha subito diverse prove. Inizialmente, Quine ha cercato di derivare l'analiticità dalla sinonimia. Ad esempio, se gli enunciati che esprimono verità logiche come "Nessun uomo non sposato è sposato" possono essere ricondotti all'enunciato "Nessuno scapolo è sposato", allora si può dimostrare l'esistenza di verità analitiche. Questo sposta il problema dalla nozione di analiticità a quella di sinonimia, che richiede un'analisi dell'intercambiabilità salva veritate degli enunciati. Due enunciati possono essere definiti sinonimi se sostituendone uno con un altro viene conservato il valore di verità. Tuttavia, l'adozione di un linguaggio estensionale non garantisce la sinonimia cognitiva, quindi sembra che l'unico modo per fondare la sinonimia sia presupporre l'analiticità. Ciò rende la linea argomentativa circolare. La teoria del riferimento diretto, una forma alterata di riduzionismo, ha una duplice debolezza che deriva dall'infondatezza della distinzione tra analitico e sintetico e dal ricorso problematico ai mondi possibili come strategia argomentativa. Kripke distingue le verità necessarie, che sono vere in tutti i mondi possibili, dalle verità a priori, che sono vere a prescindere dall'esperienza. Tuttavia, se la distinzione tra verità sintetiche e verità analitiche viene abbattuta, allora anche quella tra verità necessarie e verità a priori viene abbattuta. Se queste distinzioni non sono tracciabili, l'intera proposta dei teorici del riferimento diretto diventa esclusivamente metafisica, poiché definisce la realtà in un certo modo, uscendo dall'analisi del linguaggio.

Secondo i critici di Quine, la sua adesione al comportamentismo dovrebbe invalidare ciò che ha sostenuto nel paragrafo precedente. Ciò è dovuto alla nascita del paradigma cognitivista grazie agli studi rivoluzionari in psicologia cognitiva e linguistica di Noam Chomsky. Questi studi hanno segnato la fine del comportamentismo stesso, che è adesso considerato una posizione superata. Quine ha affermato che fosse impossibile esaminare l'attività mentale e la psicologia potesse interamente ridursi all'analisi del comportamento in termini di un paradigma stimolo-risposta. Tuttavia, tutto ciò è cambiato gradualmente dopo l'introduzione della risonanza magnetica funzionale, una tecnica che utilizza il rapporto tra l'emoglobina ossigenata e quella deossigenata per misurare l'attività del cervello in modo indiretto. Questa tecnica è dotata di una risoluzione spaziale che consente di vedere l'attività cerebrale delle singole aree. Quine può comunque riconsiderare la sua ipotesi immaginando cosa possa accadere nel cervello durante la presentazione di oggetti o parole. Diversi scienziati hanno studiato il linguaggio e la rappresentazione della conoscenza del cervello, e ciò che descriverò di seguito è stato tratto da esperimenti reali. Negli anni '80, Warrington, Shallice e i loro collaboratori si sono resi conto che, sulla base delle evidenze cliniche derivate da studi sulle lesioni cerebrali in pazienti, sembrava che la corteccia cerebrale avesse un'organizzazione della conoscenza semantica basata sulle proprietà sensoriali e funzionali. Tuttavia, il limite di questi studi pionieristici era insito nella loro natura lesionale, in quanto la lesione non può essere controllata dallo sperimentatore e spesso è abbastanza ampia da impedire caratterizzazioni più precise. Tali impedimenti sono stati progressivamente superati, e nell'articolo di Martin e Chao "Semantic memory and the brain: structure and processes", vengono revisionati vari corpus di evidenze in cui viene mostrato che:

"l'evidenza sta accumulandosi che la denominazione e l'identificazione degli oggetti con attributi legati al movimento attivano aree vicine alle regioni che mediano la percezione del movimento degli oggetti (la regione posteriore del lobo temporale laterale), con diversi modelli di attività associati agli oggetti biologici e a quelli fatti dall'uomo. Allo stesso modo, la denominazione degli oggetti fatti dall'uomo manipolabili attiva selettivamente aree vicine alle regioni attive durante la manipolazione degli oggetti”. (Martin e Chao, 2001)

Ciò significa che quando nominiamo o identifichiamo un oggetto vengono attivate aree motorie vicine a quelle utilizzate per l’interazione con l’oggetto, e che queste aree non vengono attivate durante la percezione di animali, volti o case, ma per questi ultimi sono attivate invece le aree sensoriali che sono specifiche per il tipo di oggetto in questione (la parola gelato attiverà l’area gustativa, la parola tromba quella uditiva etc.). Le conclusioni che si possono trarre da questo genere di studi sono in grado di riabilitare la posizione di Quine, innanzitutto la distinzione animato/non animato che a noi pare una distinzione ontologica fondamentale, per il nostro cervello non esiste: esso distingue in funzionale (manipolabile) e sensoriale (non manipolabile) sulla base delle caratteristiche dello stimolo che costruiscono delle coordinate relative entro le quali poter collocare i riferimenti delle nostre parole. L’organizzazione stessa del cervello costituisce di fatto il nostro “linguaggio di sfondo” in cui regrediamo per attribuire i nostri riferimenti, ed anche quest’ultimo – adesso che lo sforzo congiunto dei ricercatori lo ha scoperto e lo sta decifrando – ci suggerisce che anche l’organizzazione semantica è relativa, perché il cervello non organizza la conoscenza semantica ascrivendo ad una piccola porzione di corteccia l’area che elabora una sola parola, ma una sola parola è scomposta, come s’è visto, nelle sue caratteristiche funzionali se si riferisce ad un oggetto manipolabile o alle sue caratteristiche sensoriali se si riferisce ad un oggetto non manipolabile, e comunque, come notano gli autori, “Le rappresentazioni delle diverse categorie di oggetti sono distribuite e sovrapposte”. (Martin e Chao 2001). Persino la registrazione dell'attività elettrica delle singole cellule - che nell'uomo è possibile molto raramente, solo in condizioni pre-chirurgiche - mostra che anche il singolo neurone risponde a una caratteristica piuttosto che a uno stimolo singolo: "Sono stati identificati neuroni che mostrano risposte altamente selettive a diverse categorie di oggetti, tra cui animali, volti e case. Inoltre, le risposte dei neuroni sono state specifiche della categoria anziché specifiche dello stimolo. Vale a dire che i neuroni responsabili degli animali hanno risposto a tutte le immagini di animali anziché a una o poche immagini selezionate". (Martin e Chao, 2001)

Possiamo dedurre infine che, anche osservando la mente, non siamo riusciti a trovare significati chiari e definiti. Essi non esistono né al di fuori della nostra testa, come sostiene Putnam, né al suo interno, come suggerisce il paradigma cognitivista. Quindi, l'unica opzione rimane l'adozione di una forma di olismo che consideri l'intero corpus delle nostre conoscenze come unità di significato e abbandoni l'idea che le parole e gli enunciati abbiano un riferimento preciso. Potrebbe persino essere che il codice del nostro cervello sia estraneo al codice proposizionale a cui siamo abituati e che sia caratterizzato da un'organizzazione connessionista come descritto nei lavori di Churchland (e come poi dimostrato dalle neuroscienze). In tal caso, l'emergere della proposizionalità dalla non-proposizionalità diventerebbe un enigma ancora più grande, che richiederà i nostri sforzi futuri per essere risolto.

Nel prossimo articolo andremo ad affrontare il ciclo di vita dell’informazione e la sua elaborazione meta-neurologica, affrontando pertanto il tema del trattamento dell’informazione stessa su un piano ontologico-cognitivo e andremo finalmente a parare rispetto agli archetipi ontologici.

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