Dall'essere alla misura
Per incominciare ad affrontare il discorso sulla misura vorrei affrontare questo frammento dello scritto “due dialoghi sulla conoscenza”:
La tolleranza del relativista presume che le persone tollerate abbiano conseguito dei risultati per conto proprio e siano sopravvissute grazie a ciò. Non è facile spiegare in che cosa consistano i risultati. Certamente si può parlare di «sistemi di pensiero» e «sistemi di vita» - l’assurdità di tale supposizione è emersa molto chiaramente nel corso del nostro dibattito. Ma approssimativamente possiamo isolare uno stadio particolare di una cultura e confrontarlo con lo stadio particolare di un’altra e diversa cultura e pervenire alla conclusione che una vita più o meno piacevole è possibile in entrambi i casi. Naturalmente, un membro della cultura P può sentirsi molto a disagio nella cultura Q, ma non è questo il punto. Il punto è che la gente cresciuta nella cultura Q e che viene a conoscenza di P, può trovare vantaggi e svantaggi e, alla fine, preferire P al proprio modo di vita – e può darsi che ci siano dei buoni motivi per questa scelta. In tali circostanze, asserzioni come «Ha preferito la falsità alla verità» sono solo chiacchiere vuote. Arnold: su questo non posso essere d’accordo! Prendi un’asserzione qualsiasi, bene, o è vera o è falsa e non importa che cosa la gente ne pensi. Sono d’accordo che il malvagio pur essere felice e il giusto infelice, ma questo non rende giusto il malvagio. Charles: avresti ragione se il mondo fosse uguale da ogni parte e non cambiassi a seconda di come si comporta la gente. Allora sì che potresti dire effettivamente, qui c’è un’asserzione che è un’entità e là c’è un mondo che è un’altra entità stabile, esiste una certa relazione oggettiva tra i due e uno o «si addice» o non «si addice» all’altro, benché possa accadere che io non sappia mai quale dei due casi si realizzi. Ma supponiamo che il mondo o, per usare un termine più generale, l’Essere, reagisca al modo in cui tu ti comporti o in cui un’intera tradizione si comporta, supponiamo che esso reagisca in maniera diversa ad approcci diversi e che non ci sia modo di connettere tali relazioni ad una sostanza universale o a leggi universali. Supponiamo anche che l’Essere reagisca positivamente, cioè incoraggiando la vita e confermando la verità in più occasioni, allora tutto quello che possiamo dire è che, avvicinato scientificamente, l’Essere ci dà, uno dopo l’altro, un mondo chiuso, un universo esterno e infinito, una grande esplosione, un muro imponente di galassie e, nel piccolo, un immutabile blocco parmenideo, gli atomi di Democrito e così via fino ai quark, eccetera. Inoltre possiamo dire che, avvicinato «spiritualmente», ci offre gli dei, e non solo le loro idee, bensì divinità reali e visibili, le cui azioni possono essere seguite dettagliatamente – e, in queste circostanze, la vita viene incoraggiata. Be’, in un mondo simile non si può dire che gli dei siano illusioni – esistono realmente, sebbene non assolutamente, ma in risposta a speciali tipi di azioni e non si può dire che ogni cosa obbedisce e ha sempre obbedito alle leggi della meccanica quantistica, poiché queste leggi saltano fuori soltanto dopo avere attraversato uno sviluppo storico complesso; si può dire invece che culture diverse e tendenze storiche diverse (nel senso approssimativo e ristretto introdotto prima) hanno un fondamento nella realtà e che la conoscenza è «relativa» in questo senso. Li Feng: Stai forse dicendo che l’uomo è misura come lo sono intere culture, ma che anche l’Essere è misura e che qualsivoglia mondo in cui viviamo è il risultato dell’interazione fra queste due misure? Charles: Sì, questa è un’ottima formulazione. Molti commettono l’errore di supporre che il mondo sorto come risposta alle loro azioni o alla loro storia sia alla base di tutte le altre culture, solo che gli altri sono troppo stupidi per accorgersene. Ma non c’è modo di scoprire il meccanismo per cui i vari mondi emergono dall’Essere. Li Feng: Quest’ultima ipotesi non mi rende molto felice – perché non dovrebbe essere possibile un bel giorno scoprire quel meccanismo? Charles: Perché le scoperte sono eventi storici – non possono essere previste. Conoscendo il meccanismo di interazione si potrebbe riuscire a prevederle, di conseguenza tale meccanismo non sarà mai conosciuto. Esprimendosi diversamente, si potrebbe dire che le azioni della Natura non possono essere previste da una creatura la cui vita si distende nel tempo. Tale creatura può prevedere quello che accade all’interno di un mondo particolare, non può prevedere i mutamenti da un mondo all’altro. Jack: Vorrei tornare al disagio provato da Li Feng di fronte all’impossibilità di scoprire le leggi dell’Essere stesso. È facile fornire esempi di situazioni che mostrano i limiti della conoscenza, persino secondo le leggi del nostro universo finito. Prendiamo per esempio lo stato puramente quantistico del tavolo che ho davanti: per trovarlo bisognerebbe avere uno strumento di misura più grande dell’intero universo e, se l’avessi, farebbe saltare in aria il tavolo invece di misurarlo. Interpretando il nostro cervello come un computer, possiamo fare delle congetture sulle sue capacità, e allora, stando ai fatti e alle leggi che conosciamo e accettiamo, certe cose andrebbero oltre la nostra comprensione. E allora perché l’Essere non dovrebbe reagire alle azioni umane con mondi che non sono almeno parzialmente comprensibili agli esseri umani, pur rimanendo incomprensibili in sé stesse?
Arnold: Tu parli quasi come se l’Essere fosse una persona.
Charles: Può darsi benissimo che lo sia – di fatto non sarei contrario a pensarlo come una sorta di deus-sive-natura senza la stitichezza spinoziana.
Jack: Sicché il relativismo equivale ora al riconoscimento che non c’è una natura stabile, bensì una realtà indeterminata, non conoscibile in linea di principio, che può rifiutare certi approcci – alcune azioni restano senza riscontro – ma lascia uno spazio di manovra maggiore di quanto non suppongano i realisti come Platone o Einstein?
Charles: Penso di sì. Ci sono culture diverse e non tutte si compongono di lunatici o funzionano in virtù di una versione estrema del principio di Protagora, ma piuttosto esistono perché l’Essere permette diversi approcci e, entro certi limiti, incoraggia il relativismo pratico: l’uomo, o qualunque aspetto temporaneamente stabile delle varie culture, è misura delle cose, per quanto l’Essere gli permette di essere misura. Inoltre l’Essere lascia agli individui o alle culture la quantità di indipendenza che è necessaria per essere misura in questo senso ristretto. Può darsi che un singolo individuo, in partenza su un sentiero solitario, «tocchi un punto nevralgico» dell’Essere e fornisca lo stimolo per un mondo interamente nuovo. È semplicemente impossibile separare la discussione sul relativismo e sulla tolleranza dalla cosmologia o persino dalla teologia – una discussione meramente logica non solo è ingenua, ma non ha neppure senso.
Dr. Cole: Be’, Platone sembra essere della stessa opinione, infatti in seguito, nel Timeo, egli edifica una cosmologia completa come sfondo per spiegare la conoscenza… (Un individuo dall’aspetto colto appare sulla porta) Scusate, adesso devo cominciare la mia lezione… Dr. Cole: (guardando l’orologio) già? Siamo arrivati appena a metà del dialogo.
Donald: (con voce lamentosa) Con quale risultato?
Charles: Vuoi dire che non hai imparato nulla?
Donald: No – ho cercato di prendere appunti, ma siete saltati qua e là da un argomento all’altro, era il caos completo…
Charles: Vuoi dire che un risultato è qualcosa che può essere trascritto?
In questo frammento si spiega che l’uomo è misura di tutte le cose e che egli è misura nei limiti in cui l’essere glielo consente. L’essere, e non lo spaziotempo, è quindi il limite di ogni realtà. Questo significa che tutto ciò che si può pensare esiste, e che quindi tutto ciò che è determinato è, e l’esistenza va oltre la connotazione spaziotemporale. Feyerabend sembra costruire un’ontologia proprio in questo modo:
Essere → Logos umani → determinati
Ed è proprio ciò che è stato esposto da questa serie di articoli. Anche la funzione critica dell’ontologia come limite dell’uomo, del pensiero e del teorizzare. L’essere pone il limite. Il postulato di oggettività è l’object della scienza, quindi utilizzando questo postulato si ottiene come gegestand (oggetto risultante da un argomento) tutti i prodotti scientifici. Se invece si usano altri postulati, come quelli dei miti, si hanno le religioni.
Al fine di comprendere meglio la questione della misura, si andrà qui di seguito ad affrontare la differenza delle variabili ed il modo in cui si possono misurare, perché la misura è importante per qualsiasi esperimento o test. Esistono due modi di classificare le variabili. Uno di questi è in base alla loro natura, l’altra in base a come si presentano.
In base alla loro natura le variabili possono essere:
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Quantitative: quando le si possono misurare, nel senso che esiste una scala di misura in grado di classificare quella variabile. La velocità, la temperatura, il tempo, etc. In genere sono le grandezze fisiche.
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Qualitative: sono quelle variabili che variano sulla base della frequenza: la provenienza geografica, l’autore preferito, etc. Non esiste una scala di misura per misurarle. O si è maschi o si è femmine, o si scrive con la mano destra o con la sinistra, etc.
Poi in base a come si presentano:
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Variabili continue: sono quelle variabili che possono assumere tutti i valori sulla linea dei numeri, senza salti. Sono ammessi i decimali, i numeri fratti, etc.
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Variabili discontinue: si tratta di variabili che invece presentano dei salti e si possono contare solo sui numeri naturali.
Sulla base di questo modo di classificare variabili si può vedere come nella scienza un determinato progetto di ricerca dovrebbe tenere conto della variabile in base alla sua natura. Per esempio in un esperimento sugli uomini si tende ad usare nel campione un numero uguale di uomini e di donne per azzerare l’effetto della variabile genere, anche se così si tralascia l’individualità e quindi è un processo sbagliato. Ora veniamo alla distinzione più importante, ossia quella tra variabile dipendente e variabile indipendente. La prima è la variabile che viene influenzata, è quella che lo studio misura per vedere se ci sono stati gli effetti. La seconda è la variabile che si modifica e che dovrebbe dare degli effetti nella prima.
Le variabili qualitative vengono talvolta rese quantitative perché si tengono conto gli ibridi superando il divario della classe definita come classe a sé. Quindi si dice più maschio o più femmina e per la gente più anormale, più mancino o più destrimane. Ma questo è un errore epistemologico che non tiene da conto della variabilità qualitativa, riducendola anzi ad una quantitativa. È una forma di nichilismo dove si asserisce la mancanza di qualità. È un mezzo che dissolve la misura estendendola alla qualità, come se la misura non fosse più un riferimento, ma un carattere intrinseco.
Esistono diversi tipi di ricerca e quelli che interessano sono:
- Osservazione naturalistica.
- Ricerca correlazionale.
- Studio sperimentale.
- Studio longitudinale.
- Studio trasversale.
- Dati d’archivio.
L’osservazione naturalistica è l’osservazione del comportamento animale nel suo ambiente naturale. Prevede che l’osservatore sia invisibile e che non si faccia vedere.
La ricerca correlazionale è la ricerca più diffusa ed anche la più inutile. Infatti la può fare chiunque e non serve un minimo di bravura. Si può correlare qualsiasi cosa come la temperatura corporea e la bravura in matematica, e basta avere a disposizione di un campione abbastanza grande e manipolare i dati per fare uscire fuori dallo studio quello che si vuole. Infatti questi studi correlazionali sono gli studi più fatti dai docenti universitari soltanto per fare vedere che pubblicano qualcosa, ma il loro valore è nullo. Per cui quando vi diranno “la scienza dice che” chiedete sempre di vedere l’articolo e se è una correlazione potete obiettare dicendo che al 90% si tratta di una forzatura che avrebbe potuto fare chiunque. Da notare che gli studi clinici sono perlopiù composti da ricerche correlazionali. Infatti la ricerca correlazionale è la più disprezzata da tutti coloro che fanno ricerca in modo serio, ed è il tipo di ricerca che solitamente alimenta le fake news, le tematiche pseudoscientifiche e robe simili, solo per vaneggiare il titolo da scienziato.
Lo studio longitudinale si fa per studiare l’andamento di un evento. Teoricamente questo sarebbe lo studio migliore, persino superiore al metodo sperimentale, tuttavia in pratica tutti questi studi sono fallaci, perché si avvalgono di misure prese a distanza di anni e di correlazioni. Teoricamente uno studio longitudinale puro prevede che il soggetto viva in un laboratorio in cui le variabili vengono accuratamente manipolate, ma questo è impossibile e gli scienziati spacciano come longitudinali studi che magari non hanno nulla a che vedere.
Il disegno trasversale è altrettanto un metodo abbastanza subdolo, si tratta di misurare una variabile in individui ad età diversa e trarre delle conclusioni, ed è un altro studio che fanno solitamente o per ricerche statistiche che utilizzano euristiche o per fare ancora ricerche correlazionali.
Per quanto riguarda i dati d’archivio è assurdo, perché semplicemente si prendono la cronaca ed i dati statistici per fare inferenza, quindi è pura euristica.
Il discorso ora verte sullo sperimentale. Un esperimento si fa in un laboratorio perché il laboratorio è un ambiente controllato. Esso può essere semplificato in modo da impedire che vi siano perturbazioni che modifichino i dati. Generalmente si studiano cose molto semplici perché si scompone il problema proprio per essere sicuri, e si varia piano piano l’ambiente fino a trovare quel meccanismo che fa scattare il cambiamento. Solo queste ricerche permettono di essere sicure, e spesso e volentieri sono studi abbastanza rari e si decidono a farli raramente.
Ovviamente le ricerche rispetto ad un’ipotesi e quindi rispetto ad una teoria, sono soggette ad influenze, ad euristiche, e queste vengono talvolta regolate in base a dei bias, ovvero dei pesi che fanno vertire il discorso da una parte o dall’altra. Le euristiche ed i bias sono entrambi fenomeni cognitivi che possono influire sulle capacità di prendere decisioni accurate e razionali, ma hanno cause, funzioni, ed effetti diversi. Mentre i bias possono fare polarizzare verso una teoria anziché un’altra, le euristiche sono scorciatoie sul mondo che permettono di optare per soluzioni più o meno specifiche. Ambedue agiscono per:
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Definizione: i bias sono distorsioni sistematiche nella nostra capacità di elaborare ed interpretare le informazioni, mentre le euristiche sono regole generali che si utilizzano per semplificare il processo decisionale e stanno alla base dell’induttività.
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Funzione: i bias possono essere considerati come “errori” nel nostro pensiero, poiché possono portare a decisioni sbagliate o giudizi distorti. Le euristiche, d’altra parte, sono spesso utili poiché permettono di prendere decisioni molto rapidamente senza dovere valutare tutte le opzioni disponibili.
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Cause: i bias possono essere causati da vari fattori, come la mancanza di informazioni, l’esperienza passata, le emozioni o qualunque fattore stagnante che fa pesare una determina polarità del discorso. Le euristiche sono spesso il risultato di processi di pensiero automatici ed inconsci.
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Effetti: i bias possono portare a decisioni sbagliate o giudizi distorti, mentre le euristiche possono essere utili in molte situazioni, ma possono anche portare ad errori se non applicate correttamente. E solitamente guardacaso vengono applicate in campi laddove serve accuratezza (le euristiche non hanno un grande impatto come nelle decisioni quotidiane sulla scelta del cibo).
Le euristiche si possono così classificare:
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Euristica dell’ancoraggio: si usa per fare delle stime di qualcosa basandosi su un aggiustamento dei dati che riguardano un’altra cosa, come per esempio calcolare la distanza tra la propria città ed un’altra sapendo già la distanza tra la propria città e una distanza nota. Questa euristica può essere utilizzata per manipolare le informazioni. Se si dicesse “la temperatura media dell’Alaska è più o meno alta di 5 gradi?”, a meno che non si sia già in possesso dell’informazione corretta, si darà un risultato che non si discosta troppo da quello presentato. Al contrario, se si dicesse “la temperatura media dell’Alaska è più o meno di -5 gradi?”, il risultato sarebbe più facilmente vicino a questa temperatura. Si nota che logicamente la risposta dovrebbe essere indipendente dalla domanda. Inoltre questo effetto si verifica anche in casi più delicati (ad esempio gli esperimenti di Loftus, come indicato nell’esempio seguente). Se si dicesse “a quale velocità le macchine si sono toccate?” in riferimento ad un incidente, o si usa il termine scontrate, o la stima della velocità sarà diversa.
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Euristica del consenso: per dare un giudizio ci si basa su quello che pensano gli altri. Una cosa è positiva se molti la ritengono tale. Il modello per spiegare questo tipo di euristica è basato sul concetto di influenza sociale informativa: quando la realtà è poco chiara, soprattutto nel mondo culturale, gli indizi sociali vengono assunti come informazioni per evitare il dispendio di una ulteriore ricerca. Questo porta ad effetti di falso consenso e di ignoranza pluralistica perché si può ritenere che una determinata cosa sia vera solo perché si pensa che gli altri la pensano, quando in realtà non hanno quel pensiero.
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Euristica dell’affetto: si utilizza questa euristica quando viene proposta una domanda a cui non è possibile dare una risposta certa. Per esempio: “come pensi finirà il governo attuale?”. Poiché non è possibile prevedere con certezza gli esiti del mondo, per dare una risposta a questa domanda la si sostituisce automaticamente con una domanda più semplice: quali sensazioni provi in riferimento al governo attuale? E di conseguenza si offre una risposta alla prima domanda, rispondendo però alla seconda. Nell’euristica dell’affetto questo viene preso come strumento per elaborare un giudizio, in cui spesso il “cosa pensi possa succedere ad x?” si trasforma in “come ti fa sentire x?”. Quest’euristica si spiega con il concetto di coerenza cognitiva analizzata nel precedente articolo: poiché è necessario dare una risposta ad una domanda rivolta, questa risposta deve essere coerente con le credenze del soggetto. Ne va da sé che non avendo elementi per valutare, la coerenza non può essere prodotta distorcendo le informazioni (perché non ci sono informazioni da distorcere), ma tramite una creazione ex novo di un giudizio basandosi sull’affetto che è l’unica informazione in merito.
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Euristica della rappresentatività: si basa sugli stereotipi e per dare un giudizio ci si basa sullo stereotipo di un determinato tipo di persona o luogo. Per esempio: c’è il vetro di una macchina rotta e si incolpa il nero perché è nero. Si basa quindi su delle conoscenze contenute in memoria e già organizzate, cioè su degli schemi che in modo procedurale assegnano ad un determinato tipo di persona delle determinate caratteristiche. A differenza dell’euristica della disponibilità, non è importante la quantità di stimoli a cui si è sottoposti. Si tratta di un’euristica che si forma in base allo stereotipo che è culturalmente trasmesso con una singola esposizione. Alla base di questa euristica c’è dunque il processo di categorizzazione sociale: le persone vengono divise in gruppi, ed ai gruppi si assegnano determinate caratteristiche. Se il tizio x appartiene ad un determinato gruppo, allora avrà quelle caratteristiche. E quasi sicuramente verrà perso oltretutto il significato mereologico.
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Euristica della disponibilità: per dare un giudizio ci si basa sui dati immediatamente disponibili. Per esempio, la cronaca racconta a distanza di poco tempo che in un determinato luogo sono avvenute svariate rapine. Secondo questa euristica quel posto è pericoloso anche se si dovesse indagare più a fondo tale posto risulta meno pericoloso della media. Questo comporta l’ignorare completamente i dati statistici reali in merito all’occorrenza di un dato evento, perciò i media possono manipolare il pensiero delle persone portandole a prendere determinate decisioni semplicemente parlando in modo diffuso di un evento. Più si sente parlare di una cosa, più quella cosa è accessibile in memoria, più si ha l’effetto di un’euristica della disponibilità. Questo perché più un concetto è discusso e trattato, più facilmente esso viene ricordato e diventa la prima cosa a cui si pensa per elaborare una decisione.
Per quanto riguarda i bias, possiamo classificarli invece in questo modo:
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Bias verso la verità: questo bias porta a considerare come vero qualunque cosa l’altro dica. Secondo questo bias si è molto più propensi ad accettare acriticamente come vera o comunque come sincera qualunque informazione da parte di un’altra persona piuttosto che controllarla scrupolosamente come si dovrebbe invece fare.
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Bias di conferma: vengono selezionate ed elaborate solo le informazioni coerenti con la propria teoria o con il proprio io. Questo bias è molto difficile da eliminare e condiziona il ragionamento su più livelli. Innanzitutto esso rende praticamente inefficace la discussione di gruppo, portando ad una polarizzazione dei pensieri precedenti: in un gruppo di 5 persone ognuno esprime il proprio pensiero circa un argomento. L’effetto non è quello di costruire un pensiero unico che è sintesi delle 5 posizioni, ma assumere nei pensieri delle altre 4 persone soltanto i punti a favore del proprio pensiero. Un altro effetto di questo bias è quello di ignorare qualunque prova contraria alla propria teoria, e questo è l’unico pilastro su cui poggiano qualunque religione e qualsiasi teoria morale. Questo bias ha anche come effetti su come come vengono descritti i comportamenti degli altri, e provoca la cosiddetta profezia che si autoavvera. Il modo in cui ha effetto è in due modi: attraverso il bias linguistico intergruppi, che è un sottoprodotto di questo, e attraverso l’errore di attribuzione. Nel primo caso quando si ha a che fare con un membro del proprio gruppo si descrive il suo successo in modo disposizionale (cioè facendo riferimento a concetti psicologici) e astratto, così da veicolare come messaggio la stabilità e universalità di quel tratto. Esempio: “un amico ha preso un voto alto a scuola” diventa “il mio amico è intelligente”. Nel caso di fallimento o di condotta deviante essa viene descritta come se fosse attribuita a cause concrete e comportamentali: “un mio amico ha rotto la vetrina di un negozio” diventa “oggi x ha rotto la vetrina” e non “x è violento”. Allo stesso modo, coloro che fanno parte di gruppi a cui non si appartiene vengono descritti in modo reciproco. Per quanto riguarda l’attribuzione di cause, gli errori di coloro che vengono concepiti come esterni al gruppo sono concepiti come cause globali e stabili. Ad esempio, “lo zingaro mi ha rapinato” perché è uno zingaro, senza fare riferimento alle caratteristiche individuali. D’altra parte se uno zingaro ci presta soldi mentre siamo sull’autobus e fare il biglietto prima che il controllore ci faccia la multa, non sarà più lo zingaro, ma sarà concepito come nome e cognome, cioè come individuo attribuendo il suo caso ad una contingenza. Perché tutto questo? In questo modo di protegge l’immagine del proprio io che è connessa a quella del proprio gruppo, quindi si rende il proprio gruppo migliore degli altri per motivazioni narcisistiche e si ignorano, distorcono e manipolano tutti i feedback in modo da mantenere una visione coerente con il proprio narcisismo.
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Bias da ottimismo: questo bias riguarda come si percepiscono i rischi e gli eventi avversi: l’io si ritiene il migliore ed immune da rischio. Negli USA a degli imprenditori è stato chiesto perché avviare un’impresa in un determinato settore se il 75% è destinato a fallire, e tutti gli intervistati hanno detto che non avrebbero fallito, quando ciò è completamente improbabile. Il bias da ottimismo è un effetto del narcisismo dell’io, ed infatti esso fa credere di avere delle buone qualità e di essere superiori alla media, quando questo è sbagliato. Esso agisce in diversi modi, innanzitutto comporta che i successi vengono interpretati in modo interno e globale, nel senso che come causa di un successo viene assegnata la bravura del soggetto o una sua qualsiasi abilità mentale. I fallimenti vengono interpretati come esterni e contingenti, nel senso che la causa di un fallimento è attribuita agli altri ed alla situazione. Questo comporta una sovrastima delle proprie capacità ed una cecità verso i propri fallimenti. Un altro modo più subdolo in cui questo agisce è attraverso lo spostamento del problema. Quando si subisce un fallimento invece di affrontarlo si ripiega su un altro ambito, spesso relazionale. Ad esempio, un fallimento accademico può essere ignorato buttandosi sulle amicizie dicendo “anche se ho fallito, sono comunque un buon amico”. È ovvio che questo bias comporta delle conseguenze pesanti.
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Bias di avversione alla perdita: questo bias è caratterizzato dalla propensione ad evitare il rischio quando ci sono dei guadagni sicuri. Per farlo capire procederò subito con un esempio. Si può scegliere tra due delle seguenti opzioni:
a. Il 100% di vincere €400.
b. Il 90% di vincere €600 e il 10% di non vincere nulla.
Se si preferisce l’opzione a si tratta di bias di avversione alla perdita, perché il valore atteso dell’opzione b è maggiore dell’opzione a. Tuttavia si preferisce il guadagno certo piuttosto che perdere il denaro. Perché? Perché qualsiasi fallimento, anche quelli più contingenti, vengono interpretati come un attacco nei confronti dell’io, e quindi si preferisce investire del valore economico per proteggere il proprio io piuttosto che per incrementare il proprio denaro.
Le persone quando sono poste dinnanzi alla descrizione di un individuo e devono emettere dei giudizi sulla sua personalità sono spesso e volentieri portate a barrare come risposta corretta degli eventi altamente improbabili, spesso delle probabilità congiunte che possono essere calcolate come P(a)*P(b). Ora, visto che una probabilità può assumere un valore tra 0 ed 1, ne va da sé che più assunzioni si fanno, più la cosa è improbabile. Ma perché… perché scegliere deliberatamente di sbagliare? Ebbene, questa serie di esperimenti spiega non solo che le persone si affidano agli stereotipi ed alle euristiche per le loro decisioni psicologiche, ma che questo rifletta anche il progresso scientifico. Infatti sia Popper, che Khun, Lakatos e Feyerabend, parlano dell’influenza della metafisica e delle credenze extrascientifiche sulla costruzione delle teorie scientifiche. Una teoria viene costruita non sul nulla, ma sulla base di una metafisica. Le teorie sono rischiose non perché c’è, come vorrebbe Popper, un accordo metodologico tra gli scienziati (visto che l’attitudine a formulare teorie rischiose è anche fuori dalla scienza), ma perché se si ha una conoscenza sintetica sul mondo (ad esempio gli stereotipi) essa funziona come un bias che orienta la costruzione di una teoria. Ora non ci vuole chissà quale lampo di genio per capire che il comportamentismo è falso. I comportamentisti stessi probabilmente erano a conoscenza della falsità della loro ipotesi, perché è una teoria veramente estrema. Pensare, ad esempio, che non esiste la mente e che tutto sia comportamento ha molte probabilità di essere falso. Ma se invece fosse stato vero? Una teoria così estrema avrebbe spiegato una grossa porzione di mondo. Questo spiega perché logicamente è quasi istintivo cambiare le teorie: quando si viene smentiti da una falsificazione si cambia una delle ipotesi che costituiscono la teoria perché il cambio dell’ipotesi è più rischioso, dato che lasciare la teoria invariata provocherebbe, plausibilmente, lo stesso esito falsificante una volta controllate le definizioni analitiche che sono state impiegate. Perciò ora è chiaro perché le teorie vengono cambiate, perché è più rischioso farlo, in quanto una falsificazione aumenta la polarizzazione di una teoria nel suo essere più estrema.
Tuttavia generalmente le teorie non cambiano, perché il cambio di una teoria ha un costo, che può essere di tre tipi:
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Economico: per costruire una teoria e testarla ci servono risorse o per produrre la situazione sperimentale oppure per accumulare le informazioni necessarie affinché la teoria venga formulata.
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Narcisistico: se una teoria fa parte dell’identità dell’io non sarà mai falsificata o è molto difficile che lo sia, perché il rischio nel caso in cui si rivelasse sbagliata non è tale da giustificare l’investimento.
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Conoscitivo: perché sapere che una teoria è sbagliata senza avere un sostituto provoca una crisi epistemologica che può arrivare a corrodere i fondamenti della scienza stessa. Quindi non è tanto un discorso di paradigmi come vorrebbe Khun, ma si tratta di una questione di sicurezza: si è pronti a rischiare quando non si ha nulla (di serio) da perdere.
Ora resta da capire quale delle ipotesi è quella che più facilmente viene cambiata, e formalizzare dal punto di vista logico il tutto. Alla fine questo è il sunto di due secoli di dilemmi filosofici:
Una formalizzazione matematica del concetto di rischio potrebbe semplicemente essere 1-P(a). In ogni caso, 1-P(a) è sempre minore di 1-P(a)*P(b). Nel caso delle probabilità congiunte, si assume che il rischio equivalga alla probabilità che tutte le assunzioni prese insieme non si verifichino. La teoria che più facilmente viene cambiata potrebbe essere quella meno stabile e più vulnerabile, ma potrebbe essere benissimo anche quella più salda, per aumentare il rischio ancora di più. Non c’è solo una possibilità che possa essere quella corretta. Potrebbe dipendere molto da quanto per esempio una teoria rimane attaccata al sé di un individuo e dipende anche dalla sua fase cognitiva. Si prenda per esempio ciò che è successo in seguito alla scoperta delle fasi di Venere: invece di togliere l’ipotesi più vulnerabile è stata tolta quella più forte, ossia che la Terra sia stazionaria. Per una teoria non sono rare le interpretazioni alternative infatti, ma è raro piuttosto sfuggire alla censura. La meccanica newtoniana per esempio fu messa in discussione fin da subito, ma nessuno osava farlo apertamente. Un altro esempio, magari più comprensibile: per molto tempo c’è stato chi sosteneva che la luce fosse un’onda e chi sosteneva che fosse corpuscolare. In realtà la luce è entrambe le cose, ma asserire quest’ultima cosa secondo la logica delle probabilità è una follia, eppure è così. È poi importante non cadere nello psicologismo, ma piuttosto mantenere il primato della logica, dal momento che essa precede la psicologia e la postcede. La psiche è influenzata dalle teorie e non il contrario. L’eliocentrismo ha comportato un recupero della proiezione nel mondo cosmico: il cielo per il tolemaico è perfetto ed immutabile, come l’io; mentre la Terra è inconscia. Risolvere questo problema ha spostato la dicotomia necessario/contingente dal cosmo al sé, cominciando da Cartesio. Non a caso egli era un copernicano. Alla fine le teorie scientifiche sono le parti più estreme di una metafisica di base. Nelle teorie non ci sono contenuti psicologici, al più artificialisti, ma di questo se ne occupa l’ontologia. Una teoria scientifica è come un processo di gemmazone da una cellula madre. Il fatto è che si va verso teorie sempre più estreme finché non si strappa il legame con la realtà, finché la realtà presenta qualcosa di diametralmente opposto rispetto alle previsioni. Purtroppo però, è impossibile smentire sul piano osservativo l’ente, quindi per esempio la metafisica non è essa stessa una teoria, perché la si può smentire solo ontologicamente. E prima di arrivare alla verità non è nemmeno necessario costruire almeno un sistema falso; per esempio, il principio di Archimede non è mai stato smentito, ed è un principio fisico. Se noi vediamo la storia della scienza, tutte le teorie scientifiche nascono da Aristotele che ha costruito il pensiero dell’io per eccellenza, ovviamente esisteva anche la scienza dei presocratici, ma questi confondevano la scienza con la filosofia ed utilizzavano il lessico naturale per parlare di ontologia. Invece le teorie che seguirono quelle aristoteliche erano completamente soggette all’io, mentre adesso con la fisica quantistica sono dialettiche. In “pensieri lenti e veloci”, di Daniel Kahneman, si fa un esempio analogo sulle probabilità congiunte, ci si rifaccia al capitolo “Linda: il meno è più”. Quello fin’ora argomentato spiega il perché degli errori sui giudizi singoli. Quando si chiede ad una persona di emettere un giudizio singolo interpreta la domanda così: costruisci una teoria su x tale che spieghi il più possibile il comportamento di x, quando in realtà si chiede semplicemente di risolvere un problema logico e di non costruire nessuna teoria. Le persone confondono le domande e rispondono in modo sbagliato.
Pertanto ora i punti che rimangono da affrontare rispetto all’influenza della persona sulla teoria sono:
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Quale ipotesi viene cambiata e come si giustifica il piano logico?
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Nei soggetti con lesione nella corteccia prefrontale dorsolaterale, cosa impedisce di fare cambiare la teoria?
La teoria della mente, anche se errata, è nata come segue. Alcuni psicanalisti studiando la teoria della mente hanno notato che la maggior parte di quelli che hanno disturbi di personalità (soprattutto tra i borderline e i paranoici) hanno una mancanza di teoria della mente che gli provoca l’incapacità di distinguere i loro pensieri da quelli altrui. Nel senso che se un paranoico pensa che ci sia un complotto nei suoi confronti, allora questo complotto c’è davvero. Il pensiero non ha un carattere ipotetico e si passa subito alla realtà. Quindi la teoria della mente è soltanto un prodotto collaterale della natura ipotetica del pensiero. I meccanismi che sono alla base della costruzione di ipotesi (dlPFC = corteccia prefrontale dorsolaterale) sono anche alla base della costruzione di ipotesi circa la natura delle azioni. Gli animali, così come gli uomini in alcuni casi, non utilizzano la corteccia prefrontale dorsolaterale per elaborare delle ipotesi, ma quella ventromediale che elabora dei feedback emotivi, per questo non sono capaci di elaborare ipotesi in modo proposizionale. Negli uomini queste ipotesi implicite vengono costruite quando non c’è la possibilità di elaborare una ipotesi proposizionale o perché semplicemente non si decide di volerla elaborare. Quindi la teoria della mente è il risultato di una ipotesi proposizionale circa la natura delle azioni, e poiché le ipotesi proposizionali si avvalgono di entità, è stata creata l’entità mente che è il soggetto di questa ipotesi. Si potrebbe pensare il contrario, ossia che le ipotesi sulla mente abbiano portato a quelle scientifiche, ma questo non è assolutamente così, perché delle ipotesi predittive circa il funzionamento del mondo sono anteriori rispetto a quelle di mentalizzazione. Quando il bambino impara a parlare dà una funzione richiestiva al linguaggio e di tipo relazionale, e solo più tardi comincia ad usare i vocaboli mentalistici, indice che inizialmente egli ne fa a meno senza alcun problema. L’applicazione del pensiero ipotetico alla mente stessa provoca la teoria della mente. Inoltre sono possibili casi in cui è assente la mentalizzazione, ma non le ipotesi proposizionali (disturbi di personalità). Inoltre filogeneticamente le ipotesi proposizionali sono più antiche di quelle mentalistiche: se le ipotesi proposizionali coincidono con la filosofia, le ipotesi mentalistiche si svilupperanno solo più tardi, nell’era moderna, anche se hanno precursori in Platone ed Aristotele. C’è quindi un unico meccanismo ipotetico che dapprima si occupa delle ipotesi proposizionali circa il mondo e poi viene esteso anche alle ipotesi circa le azioni degli altri. Quindi non solo gli atteggiamenti proposizionali sono una teoria, ma sono una teoria che deriva dalla metafisica.
Per ipotesi proposizionali si intendono tutte quelle ipotesi che si fanno con il linguaggio. Quelle che usano i verbi come “credere”, “volere”, “desiderare”, sono solo una sottoclasse. Sono pertanto tutte quelle frasi che descrivono certi eventi del mondo. Esempi di ipotesi sono:
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Le maree sono prodotte dall’attrazione della luna.
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I grassi sono simpatici.
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I corpi si attraggono tra loro con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.
Ma le ipotesi possono essere anche di tipo metafisico:
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Esistono gli enti.
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Ci sono delle essenze.
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Esiste dio.
Bisogna però fare attenzione a non confondere gli atti linguistici con le ipotesi, perché gli atti linguistici hanno carattere imperativo e non ipotetico. Se si dice “apri la finestra” non si sta ipotizzando nulla, si sta compiendo un’azione con le parole. I neonati nonostante non possiedono delle nozioni di conservazione sono comunque capaci di riconoscere delle figure. E ci riescono perché esiste una sorta di matematica topologica innata nei bambini che è priva di operazioni. Questo fenomeno è stato osservato a livello sperimentale soprattutto dai successori di Piaget, ed è quella che si può trovare con l’acronimo ToM (theory of mind), nonché la nostra già citata teoria della mente. È un argomento che utilizzano i cognitivisti per spiegare l’esistenza della possibilità di poter capire che gli altri hanno degli stati mentali. Secondo questa teoria la persona proietterebbe il fatto che egli ha degli stati mentali agli altri, così da poter concepire il comportamento altrui come frutto di stati mentali e non come reazioni meccaniche. Questa teoria fallisce perché concepisce la proiezione come a partire da una certa età, però non riesce a spiegare animismo, artificialismo, etc. Secondo Piaget queste ci sono perché il bambino non fa distinzione tra la sua mente ed il mondo esterno, tuttavia se fosse così negli adulti non dovrebbero esserci queste componenti, invece sono marcatamente presenti negli adulti, ed anzi in questi vengono sistematizzate nella religione e nella metafisica. Piaget sostiene che il pensiero adulto è diverso da quello infantile, ma in realtà non c’è una demarcazione netta perché il pensiero adulto è infantile. Tuttavia è emerso un problema: gli archetipi geometrici, sorti in maniera più evidente dalle analisi di Jung verso i pazienti schizofrenici e poi riscontrati in molti sogni anche di pazienti non schizofrenici, oltre che i miti, seguono la geometria euclidea. Ma con la relatività generale si è dimostrato che la geometria è reimanniana. Per quale motivo questa geometria è preferita alla reimanniana? Innanzitutto non possiamo più nemmeno dire che è a priori, perché se nelle scuole si insegnasse direttamente quella reimanniana e non più quella euclidea potrebbe essere che queste generazioni esprimerebbero in modo reimanniano i rapporti con le funzioni cognitive (sempre analizzate da Jung). Il che non altererebbe i significati ma solo i rapporti tra gli angoli. Però la simbologia geometrico-matematica è quella preferita nei sogni, perché storicamente è stata preferita l’euclidea dal momento che è quella anteriore. Possiamo dire che la matematica è preferita alla geometria perché è più vicina al linguaggio macchina dei neuroni che è computazionale. Ma non possiamo dire che la geometria euclidea occupi lo stesso posto della matematica nella descrizione del sé. Dobbiamo portare nell’inconscio storico la geometria euclidea e lasciare nell’inconscio collettivo esclusivamente la matematica. Che la matematica sia una proprietà innata del sistema rispetto alla geometria si comprende da quanto segue: gli archetipi finiscono al 4. Se fosse diversamente, se la matematica fosse anch’essa parte dell’inconscio storico, si avrebbero 10 cifre significative (0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9), invece se ne hanno ben 4 e lo 0 è escluso. Gli utilizzi di numeri superiori vanno sempre convertiti secondo il peculiare sistema che utilizza l’inconscio che pare non sia mai stato costruito in natura, e che lo 0 non è un archetipo, ma è un prodotto storico dell’io (anche in matematica è stato introdotto dagli arabi), perciò il modo migliore per raffigurare i numeri dell’inconscio collettivo è un sistema di numerazione romano in base 4. Noi attualmente studiamo matematica come un sistema decimale proposizionale, mentre nell’inconscio è addittivo sottrattivo e a base 4. Ciò prova che la matematica del sé è innata. Noi studiamo la geometria euclidea e nel sé i rapporti geometrici non sono euclidei, prova che la geometria è parte dell’inconscio storico. Ed è parte dell’inconscio storico perché esso è l’inconscio collettivo che si conosce per la propria temporalità, in modo da dare possibilità di indagare anche sulla dialettica tra gli archetipi o le funzioni stesse, usando come mezzo conoscitivo del sé la proiezione. Ed infatti la geometria nella sua collocazione nell’inconscio storico, altro non è che un livello discorsivo della matematica organizzato in modo maggiormente complesso a causa della sua temporalità come proprietà assunta. Riprendendo in senso stretto la teoria della mente, gli stati mentali sono semplicemente delle condizioni fisse in cui un sistema si può trovare. In una macchina di Turing, per esempio, uno stato mentale, è una particolare condizione in cui entra una macchina dopo aver letto un simbolo. Quali sono gli stati mentali di una macchina vengono stabiliti da chi progetta il calcolatore, e generalmente sono sempre di numero finito. Non è possibile fare un esempio di uno stato mentale perché è un concetto astratto. Nelle macchine di Turing funziona così: la macchina legge A mentre si trova nello stato 1, quindi cancella, scrive B, si sposta a destra e passa nello stato 2. Semplicemente lo stato mentale è ciò che determina cosa deve fare la macchina quando legge un determinato simbolo. Se per esempio invece di essere nello stato 1 stava nello stato 3, colui che ha progettato la macchina poteva fare seguire come istruzione, invece di quella di scrivere B e spostarsi a destra, semplicemente quella di lasciare A e spostarsi a destra, rimanendo nello stato 3. Gli stati mentali non possono esiste a livello del cervello perché lavora diversamente attraverso l’elaborazione di reti neurali che non impiegano alcuno stato mentale per funzionare. L’output del sistema non è condizionato da presunti stati interni, ma esclusivamente dall’architettura, come già citato più volte. E l’output di questi processi non sarebbe uno stato mentale, ma un’azione. Avere fame per esempio è un’alterazione di ormoni nel corpo che viene segnalata al cervello attraverso determinate vie. Si può definire pertanto azione perché porta a cambiamenti fisiologici. I desideri ontologicamente sono impossibili, così come lo sono gli stati di credenza e così via. Non è possibile pertanto dare una spiegazione razionale a cosa sia uno stato mentale perché presuppone una condizione ontologica di impossibilità che si esprime come l’insieme di proprietà quali la sensazione ontificata più l’autocoscienza (in maniera indefinita). E queste non possono stare assieme tra loro per formare una sorta di entità che possiamo definire stato mentale. Di conseguenza cercare di definire cosa sia non è possibile, potendo essere definito anzi solo come un errore. Se si considerasse vera la ToM inoltre si arriverebbe a formulare che tutti i cervelli si comportano in maniera stereotipata a partire dal livello neurologico e che quindi tali cellule, i neuroni, agiscono in maniera stereotipata, non rispettando dunque le leggi di Hebb, poiché non sarebbero in conflitto tra loro. Quindi, concludendo, di per sé non esiste alcuno stato mentale perché presuppone che ci sia qualcosa che si mette in mezzo tra i neuroni e i loro processi. Il pensiero è attività dei neuroni e basta. Chi sostiene gli stati mentali è generalmente poggiato a teorie funzionaliste che ignorano l’hardware del cervello. Per quanto riguarda il desiderio precedentemente citato invece non esiste perché si intende un ente astratto che consiste in uno stato mentale. Poiché la mente non esiste, non possono esistere nemmeno gli stati mentali. Il desiderio è classificato tra gli stati non doxastici, cioè gli stati orectici. Orectio deriva da orexis, che in greco significa desiderio. Si tratta di particolari stati funzionali del vivente che indicano la tensione verso un oggetto intenzionale che a sua volta dovrebbe riportare ad un oggetto reale. Niente di più assurdo, visto che il desiderio non esiste, ma semplicemente abbiamo dei particolari aggregati di neuroni che scaricano per promuovere l’azione. Identificare questi neuroni con un desiderio oltre a non essere possibile è anche inutile. Non è possibile perché in filosofia della mente l’identità di tipo tra stato mentale e processo neurale è stata esclusa, dal momento che viene falsificata dall’argomento delle altre menti. Siamo passati dall'essere alla misura, per poi parlare delle variabili presentabili in una misura. Poi siamo andati a parlare di come tale misura viene applicata ed abbiamo discusso dei tipi di ricerca, andando a definire quali sono le possibili influenze: bias ed euristiche. Poi abbiamo parlato di ipotesi e di costi relativi ai mutamenti teorici, cosa che ha portato alla formulazione di interrogativi rispetto alle ipotesi da cambiare e sulla giustificazione sul piano logico e ad includere il discorso riguardante la teoria della mente e alla sua confutazione. Non rimane che discutere della teoria dei nudge. La teoria dei nudge è una strategia di comportamento che mira a influenzare il comportamento delle persone in modo sottile e non invasivo. Essa si basa sull'idea che i fattori che influenzano il comportamento umano siano spesso sottostanti alla nostra consapevolezza e, di conseguenza, possono essere modificati per favorire scelte più vantaggiose. Le euristiche e i bias sono una parte importante di questa teoria, in quanto spiegano come le persone elaborano e utilizzano le informazioni per prendere decisioni. La teoria dei nudge utilizza queste conoscenze per favorire scelte più vantaggiose per l’individuo. Ad esempio, se si vuole incoraggiare le persone a mangiare cibi più sani, si potrebbe utilizzare un nudge come posizionare i cibi sani a portata di mano e rendere quelli meno sani meno accessibili. In questo modo, si utilizza l'euristica della disponibilità per favorire scelte più sane, evitando al tempo stesso il bias della conferma. Un altro esempio di nudge è questo: dicendo “la maggior parte delle persone fa x” si fa in modo che la maggior parte delle persone lo faccia anche se non è vero. Quindi dire che tante persone fanno una cosa è un modo per ottenere che tante persone la facciano. Nella teoria dei nudge è importante pertanto il concetto di opzione di default. Essa è quella che si dispone senza compiere una scelta e sfrutta fondamentalmente la pigrizia. Per esempio, se si va a in un all you can eat, l’opzione di default è il menù all you can eat, ma se si è consapevoli di mangiare di meno o di fermarsi per un pranzo veloce, si può richiedere un menù sulla carta. Ovviamente l’opzione di default può anche essere sfruttata in modo malevolo, settando come impostazione di default quella più vantaggiosa per chi offre i nudge, a discapito dell’utente che viene sfruttato. Questo lo fanno quei siti che impostano automaticamente su “sì” tutti i cookie e solo spuntandoli uno alla volta li si può togliere. In questo modo rendono più difficile prendere la scelta. Un esempio di cattiva architettura delle scelte è quella propinata dal governo italiano con l’app io, che è una dichiarata e legale violazione della privacy. Quello che farebbe un tecnico malevolo sarebbe installarla di default dando l’opportunità di disinstallarla in seguito (in alcuni dispositivi ci sono app che manco si possono disinstallare), così che molta gente non si prende briga di disinstallarla in quanto molti si mantengono sull’opzione di default. Poiché l’opzione in questo caso è la mancanza di app, ciò significa che in molti non l’hanno installata e l’app non ha funzionato come previsto, nonostante le pubblicità massicce che asserisce che chi non la ha non può accedere a determinati servizi (anche se questo risulta più evidente oggi con lo SPID). Ad oggi quasi nessuno ha l’app io, o comunque l’ha disinstallata in breve tempo. Si tratta di un’opzione di default perch è l’opzione di partenza, in quanto non partiamo con l’app già installata. Poiché la gente tende a mantenersi nell’opzione di default, poche persone la scaricheranno. Da ciò consegue che per obbligare a scaricarla si sono messi servizi agevolati, cosa che ha generato ulteriori disservizi, soprattutto per i più anziani che manco sanno usare uno smartphone. Ma qui il discorso si dilunga, questo esempio era solo funzionale a dimostrare un cattivo utilizzo della teoria dei nudge.
La teoria dei nudge, in sintesi, sfrutta le euristiche per spingere le persone a prendere le decisioni desiderate sfruttando proprio l’induttività data dalla pigrizia, che è il frutto dell’economia cognitiva, ossia l’ottenere un risultato usando meno energie possibili.
Nel prossimo articolo andremo a discutere del penultimo argomento prima di trattare della logica ontologica: dello statuto ontologico dei significati.