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L'alba dell'ontologia

Premetto che quanto scritto fino ad ora è stata un’analisi storica e filosofica delle strutture dell’informazione, nonché dell’architettura del sapere nella storia dell’uomo. Tali strutture si rifanno sempre ad una questione: l’essere, che nell’antica Grecia veniva definito come logos, che significa discorso, intellezione, parola, traslitterato poi dalle religioni sottoforma di verbo, facendo corrispondere da una parte l’essere con l’ente e dall’altra con lo spirito, generando questa confusione generale che ha fatto abbandonare i molti alla filosofia, diventata purtroppo per chi non si è saputo orientare, una grande piazza di mercanti, nonché una cozzaglia di sistemi semplificatori della realtà, di ideologie. Ed è per questo che la stragrande maggioranza degli informatici si sono dati a tale disciplina; la logica classica è la questione più semplice ed affascinante che l’elettronica digitale può offrire. Così la programmazione è diventata la passione di molti, la quale ha dato sbocco ad ulteriori passioni che hanno tenuto e tengono tutt’ora gente incollata allo schermo, sia nella passione che nel disprezzo. Così che un programmatore, in virtù delle nozioni “creazioniste” offerte dalla metafisica si possa dire creatore di un qualche programma solo e solamente perché non esiste in natura. Ma è davvero così?

L’informatica è l’insieme di due pilastri: matematica ed elettronica. Potrei affrontare la questione della presunta artificialità dell’elettronica, ma procediamo invece sullo smentire riguardo l’artificialità della matematica (poi il discorso è estendibile oltre che all’elettronica anche a tutte le altre discipline). Generalmente si pensa che la matematica non sia una scienza naturale e che sia inventata dall’uomo, poiché i numeri in natura non esistono realmente. La formalità dell’espressione 2+2=4 è per esempio una formulazione prettamente artificiale, mai potremmo trovarla altrove poiché è sempre l’artificio dell’uomo che va a costituirla, è una decisione che si potrebbe dire a priori. La matematica pertanto si potrebbe asserire che è stata costruita dall’uomo per quantificare, ma in realtà non esisterebbe. A questa tesi si potrebbe rispondere “semplicemente” che la matematica esiste ed ha uno statuto ontologico autonomo, questione che è stata storicamente risolta quando sono stati scoperti i modelli non standard per N. Sono dei modelli costruiti e dimostrati per compattezza (Gödel) in cui si hanno infinite entità infinitamente più grandi dei numeri che non sono esse stesse numeri. Oppure, in maniera più semplice si potrebbe dire che non esistono nemmeno i libri di matematica in natura, ma di per sé esistono le operazioni matematiche e quindi anche le quantità, alla stregua di dire che non esistendo i libri di matematica in natura esistono però le proprietà che ne consentono l’assemblaggio, cioè la carta, la pressa, la colla, i fili, etc. Se per matematica si intende l’insieme di parole che contengono tali descrizioni allora ci si deve focalizzare piuttosto sulle lingue e sul livello di coscienza che hanno richiesto per giungere a tali formulazioni. Il sistema arabo e romano sono stati pertanto sì inventati, poiché la numerazione decimale non la possiamo trovare in natura e nemmeno quella esadecimale, binaria, ottale e così via, la serie di regole sono state inventate dall’uomo e così anche la matematica. Ma se inventare fosse inteso come “venire dal nulla” allora si ricadrebbe in una contraddizione ed in particolare nella morale umanistica, poiché si farebbe in modo di rendere ogni creazione, ogni ente, un ente prodotto ex novo dall’unico spirito “divino” che in questo caso è l’uomo. Ma l’uomo è limitato ed è particolare, perciò nella filosofia si rende necessario sempre uno spirito di accomunamento, il che porta alla necessità di uno spirito più universale che poi viene nominato dio o creatore. Inventare non significa perciò creare dal nulla, dal non essere, ma significa partecipare alla trasformazione dell’essere nell’essere, dove per trasformazione si intende l’attivazione o la disattivazione di alcune proprietà che si dotano di energia in modo da emergere più o meno rispetto agli strumenti di misura disponibili, sempre rimanendo nell’istanza dell’essere. Tutto pertanto è fisico e quindi anche chimico e la realtà predispone delle sovrastrutture relazionali tra le proprietà che possono essere indagate per mezzo dei linguaggi e per mezzo dunque delle proprietà logiche fondamentali che caratterizzano l’essere nelle sue determinazioni. I simboli nella matematica sono stati inventati da un ragionamento semplice e grafico che si è evoluto poi col tempo, ma si parla pur sempre di un algoritmo cognitivo che è presente in natura e non soltanto nell’uomo, anche specie come gli scimpanzé, gli elefanti e i delfini, possono riconoscere dei simboli ed interagire con essi. Fatto sta che qui il discorso sulla semantica diventa un ambito più strettamente correlato alle neuroscienze e qualsiasi infatuazione riguardo ad eventuali ipotesi può essere unicamente dovuto a speculazioni teoriche campate su teorie che non sono nemmeno dimostrabili. I numeri ed i sistemi numerici sono stati trattati dalla fisica come sistemi fisici, le quantità essendo fisiche sono percepibili cognitivamente e studiabili presso sistemi specifici, nonché misurabili. La matematica riguarda soprattutto la misura e la gestione di questa, solo che la misura nella matematica teorica viene elaborata in merito alle relazioni tra le quantità. Ed infatti la fisica altro non è che la matematica applicata al mondo. La matematica è pertanto una descrizione e se volessimo “materializzarla” potremmo dire che si presenta come segnali elettrochimici presso i nostri cervelli. Ma di per sé è una sorta di linguaggio che viene costruito a partire dalle fondamenta, è un discorso e serve solamente se qualcuno riesce a comprenderla. Le parole ad esempio esistono, ma il loro significato lo si può comprendere solo se si ha un cervello che può capirle.

Pertanto siamo giunti ad un punto cruciale: poiché l’informazione è la quantità minima di esistenza che un’intelligenza può cogliere, e poiché la quantità è misurabile ed elaborabile per mezzo della matematica, possiamo qui andare a capire cosa è che compone realmente la quantità e quali sono le proprietà della stessa. Ontologicamente l’unità fondamentale della quantità è l’esistenza spaziotemporale, nonché una differenza di spaziotempo che può essere misurata per sussistenza in una determinata area osservabile (premesso che si includa anche il discorso quantistico sulla validità delle osservazione e altri discorsi simili). L’esistenza spaziotemporale è un problema in filosofia perché è resa in modo ambiguo, soprattutto a causa della poca saccenza da parte della stragrande maggioranza dei filosofi verso le neuroscienze, che sono diventate una disciplina importantissima per la cultura contemporanea. In filosofia qualcosa esiste nello spaziotempo se essa è in una realtà esterna indipendente dal pensiero (premesso che venga o meno creata). Questa teoria è fallace perché porta ad un dualismo delle sostanze, nel senso che si presuppone che esista una realtà interna al pensiero radicalmente differente da quella che sta fuori. Ma il pensiero è solo un processo cognitivo del cervello, ed il cervello è solo un pezzo di mondo fisico, per cui questa distinzione cade. Quindi il modo in cui qui viene usato il termine spaziotempo è radicalmente diverso dal senso classico e filosofico del termine. Secondo il senso classico si direbbe che tutto esiste nello spaziotempo perché l’ontologia che qui assumiamo è un’ontologia che ha come determinati solo quelli che sono possibili all’interno di una teoria fisica casualmente chiusa. Questo in parole povere significa che nello spiegare una causa non ci possono essere agenti non fisici, e cioè che non dobbiamo ammettere una causalità spirituale o mentale. Quando in questo articolo viene usato il termine spaziotempo si intende dire l’esistenza di qualcosa al di fuori del cervello. Questo perché è banalmente vero che sia dio, che il quadrato rotondo, che l’unicorno, evocano delle attività cerebrali, pur essendo queste esistenze impossibili. Un quesito scientifico che può testare un’ipotesi ontologica è se le attivazioni delle esistenze impossibili soprattutto durante i compiti di immaginazione visiva differiscono radicalmente dalle esistenze impossibili. Se per esempio in uno scanner fMRI (a risonanza magnetica funzionale) si chiede di immaginare un quadrato rotondo, un triangolo con 5 lati o dell’acqua asciutta, c’è una differenza importante rispetto all’immaginare esistenze possibili. Quando perciò qui in questi articoli si va a definire un qualcosa che è nello spaziotempo si intende che il qualcosa a cui ci riferiamo oltre ad avere un correlato neurale ha anche un correlato nel mondo fisico. Altrimenti tutto esiste nello spaziotempo, perché qualsiasi concetto ha un correlato neurale. Tuttavia non è da intendere il cervello come unico luogo assoluto. Se per esempio prendiamo personaggi fittizi, questi possono esistere in tutte le occorrenze dei libri in cui occorrono, allo stesso modo un software esiste in tutti i pc in cui è scaricato. Per cui quando diciamo esistenza spaziotemporale dobbiamo avere questa definizione: qualcosa esiste nello spaziotempo se e solo se è in grado di esistere nel mondo fisico al di là dei medium in cui ricorre. Questo dovrebbe fare capire che non solo non è possibile creare nulla e che tutto persiste già come potenza nell’essere, ma che è necessaria una struttura senza inizio che sia caratterizzata anzi almeno dall’unica proprietà che è necessaria per potere definire qualcosa esistenzialmente ma non spaziotemporalmente: la proprietà di avere almeno una proprietà. L’essere si pone perciò a priori rispetto allo spaziotempo ed alla quantità ed elargisce le potenzialità esistenziali, nonché le possibili ed impossibili combinazioni della realtà nelle sue differenziazioni e nelle combinazioni date dalle proprietà assegnate. L’essere non è nemmeno un predicato pertanto, perché di per sé qualsiasi predicazione rispetto al verbo, è un absurdum dato dall’impossibilità dell’utilizzo del verbo essere nel senso assoluto. Nella lingua italiana il verbo essere viene inteso di fatto come esistenza relativa dotata di proprietà della quale si può conoscere o non conoscere il discorso. Nel senso, se io dico che la palla è rossa, io non dico che il rosso è in funzione della palla, ma che l’esistenza definita esistenzialmente come palla è in relazione con lo spazio e con il tempo per le leggi fisiche che la caratterizzano, dove nello specifico avrà tali proprietà che sono il fatto di essere palla ed il fatto di essere rossa. Di per sé dunque non è qui l’ente, una “cosa” di materia, ad essere palla, ma è una differenziazione dell’essere, espressa in questo caso come esistenza spaziotemporale e quindi posta esternamente al cervello, e caratterizzata da proprietà che sono palla e rossa.

Vi è poi una confusione generale su significato, significante e riferimento. Il significato è il senso del termine, il significante è la parola espressa come morfema di fonemi, ossia come phoné, come suoni o come grafemi, simboli, mentre il riferimento è ciò a cui si riferisce, ossia è il risultato di cercare questa esistenza spaziotemporalmente. Ogni significato può essere trattato come insieme di proprietà e lo stesso anche il significante ed il riferimento. Tutti e tre potranno avere almeno una proprietà in comune, ma possono avere anche proprietà differenti, poiché in ontologia di fatto non esiste alcuna differenza tra possibile ed impossibile, non essendo l’essere solamente spaziotemporale, ma semplicemente l’insieme delle possibilità presso cui le proprietà si possono o meno esprimere.

Nel prossimo articolo andremo ad analizzare le argomentazioni principali di George Edward Moore e andremo a formalizzare la teoria ontologica fondando di fatto un nuovo modo per potere intendere l’informazione, nonché slegandosi dai dogmatici concetti offerti dalla metafisica che oggi tutti diamo erroneamente per assodati.

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