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L’essere come fondamento del linguaggio

Facendo un riassunto di quanto esposto fin’ora nei precedenti articoli, troviamo a capo di tutto l’ontologia dell’essere, sostenuta da quattro principi:

  1. Principio di Parmenide.
  2. Principio di Eraclito.
  3. Principio di esistenza obbligatoria.
  4. Principio delle proprietà ontologiche. Tutti i principi possono essere ridotti al primo. Poi è stato detto che l’essere sviluppandosi dialetticamente nelle sue differenziazioni, struttura la propria dialettica in maniera orizzontale, per relazione espositiva delle proprietà, ed in maniera verticale per evoluzione storica delle proprietà stesse. mappa.png

Nell’immagine ho provato a raffigurare il concetto della struttura ontologica dell’informazione, dove i punti neri sono le proprietà, le parole, le frecce rosse e magenta le relazioni semantiche che sottintendono un discorso basato su altre proprietà o su relazioni logiche. Le frecce verdi espongono l’evoluzione temporale e dunque storica di tali proprietà, le quali in realtà andrebbero ad intrecciarsi e a modellarsi a seconda del discorso preso in esame o elaborato. Il disegno è una semplificazione estrema e abbastanza schematica di come dovrebbe essere inteso un sistema ontologico. Il sistema del liquido che ghiaccia in più punti potrebbe essere più valido, ma dovrebbe altresì essere correlato temporalmente, il che ci porrebbe dinnanzi ad una mappa a sfumature in quattro dimensioni, cosa non tanto facile da immaginare per chi non è abituato a ragionare entro questi canoni. Un’analogia grafica più coerente potrebbe essere attuata tramite la fluttuazione quantistica, ma questo è un discorso ancora più complesso, ed averlo accennato può aprire una strada che tutt’ora lascio aperta all’esplorazione.

Tale evoluzione storica mira ad uno sviluppo tematico dell’essere e si compone come segue:

  1. Pre-tematizzazione.
  2. De-tematizzazione.
  3. Tematizzazione:
    1. Tematizzazione.
    2. Meta-tematizzazione. Il tempo è poi connotato a partire dall’essere e pertanto come segue: essere → temporalità (differenza tra le proprietà, cioè dialettica) → tempo Per ricapitolare gli errori categorici rispetto all’essere:
  4. Ontificazione dell’essere.
  5. Scambio tra proprietà e proprietario.
  6. Quantificazione XOR temporalizzazione dell’essere.
  7. Coscienzalizzazione dell’essere.

Heidegger in “Essere e tempo” ci aveva visto forse più lontano di quello che credeva. Il passaggio nel secondo Heidegger al linguaggio non è una rottura. Quando Heidegger dice che il senso dell’esserci avrebbe permesso di dischiudere la temporalità in generale per poter poi accedere all’essere, ha trovato il suo ulteriore step nel linguaggio, perché il linguaggio è il senso della temporalità in generale. Si rende necessaria dunque una forma di linguaggio rispetto alle informazioni poiché per il loro significato, per il loro senso, per il loro discorso, si possono strutturare reti semantiche che culminano nell’elaborazione discorsiva, la quale fa ovviamente ricorso a “regole” logiche ed ontologiche. Se ciò che la grammatica dice è il tempo, e la temporalità è il dirsi dell’essere, allora attraverso la temporalità espressa dalla grammatica delle lingue (dei linguaggi svincolati, nonché le lingue), è possibile risalire alla struttura fondamentale dell’io, della negazione, della sorgente della negazione che ha portato alla strutturazione dell’empirismo, poi della metafisica e a tutti gli altri sistemi fino al nichilismo. Una volta raggiunta la teoria dell’io, questa può essere messa alla prova. Una volta falsificata la teoria dell’io si potrà giungere alla teoria dell’essere: escludendo da un insieme di teorie quelle ontologicamente errate è possibile riconoscere quelle ontologicamente valide e strutturare una struttura di dati coerente con l’essere e pertanto con la gnoseologia relazionale (la cultura al di là di ciò che è umano e che è pertanto il fondamento del sapere del mondo, in altre parole), nel senso che la temporalità è una proprietà fondamentale dell’essere. Per come la grammatica è costruita probabilmente non ci si libererà mai dalle alienazioni rispetto all’informazione (i fondamenti sono proiettività e il narcisismo), perché le grammatiche di tutte le lingue sono fatte per proiettarsi oltre sé stessi: il motivo è che si applica la struttura della narrazione a qualsiasi cosa, facendo in modo che un oggetto sia percepito come un qualcosa che compie un’azione; quando diciamo che la palla rotola, la palla è un soggetto, quando non lo è in realtà. Questo problema è alla base della proiettività, ciò che fa scambiare tutto per qualcosa di soggettivo, perché la grammatica delle lingue è modellata sulla struttura narrativa. Ogni generazione che si trova a dover parlare di un linguaggio naturale si troverà a confondersi con le forme grammaticali. Dunque cosa fare rispetto a questo problema? È possibile optare per una preferenza grammaticale: si va a preferire la forma passiva dei verbi, così che per esempio “la palla rotola” diventi “la palla viene fatta rotolare”. Questo faciliterebbe le incomprensioni semantiche e faciliterebbe oltretutto le strutture di dati, non facendo ricadere ancora il tutto nei sistemi metafisici. Tuttavia questo potrebbe portare molti ad un’incomprensione effettiva del contesto ontologico che caratterizza questa scelta, andandola magari a ritenere un divario tra scienza e arti (analogo a quello tra scienza e religione o tra scienza e discipline umanistiche). Nella poesia per esempio si predilige proprio la forma attiva poiché le arti sono costruite per la proiezione, essendo “lo specchio dell’animo umano”. Ma bisogna sapere distinguere la poesia dalla scienza e bisogna riconoscerne semplicemente la validità ontologica, così che l’essere venendo posto a priori rispetto a tutto, possa essere il fondamento per la contestualizzazione dell’esigenza del soggetto, il quale altro non è che la caratterizzazione che assume un qualsiasi personaggio all’interno di un mito. La scelta del linguaggio a seconda del contesto dipende sempre in fin dei conti dall’individuo.

L’origine del linguaggio è oggetto di studio da parte di numerosi scienziati, storici e linguisti. L’ipotesi più accreditata è che siccome i fenomeni producibili sono determinati dalla struttura del corpo, allora è possibile che questi siano espressi in modo innato da reti neurali, e che il linguaggio sia riconosciuto sottoforma di pattern. Esistono moltissimi fenomeni e l’apprendimento di una lingua è inversamente proporzionale alla sensibilizzazione ad essi. Un neonato è capace di distinguere i fonemi di ogni lingua del mondo, mentre gli adulti non ne sono capaci. Questo perché l’adulto vivendo prevalentemente con un pensiero tendente al nichilismo, percepisce un finalismo nelle cose e pertanto va ad appiattire il significato sul significante, così che quest’ultimo assuma il senso del significato. Per il bambino è diverso, poiché prevale il fonema sul senso della parola. Il bambino non è capace di fare come l’adulto perché le reti neurali diventano più competenti per un tipo di fonemi e riducono i pesi degli altri. Le regole grammaticali non c’entrano con il rinforzo e soprattutto il neonato si esercita all’emissione di fonemi anche da solo (lallazione, che nell’adulto in alcuni culti e religioni si è evoluto in glossazione). Il linguaggio viene inizialmente adoperato come comunicazione con sé stessi, perché siccome l’io non si è propriamente formato, il bambino parla da solo per dire ciò che egli stesso deve fare, altrimenti se ne scorda. Dopodiché la ripetizione diventa mnemonica. Da notare la differenza con le caratteristiche date dalle scimmie, come esposto nel precedente articolo. Il linguaggio di per sé è l’unico comportamento indipendente dai rinforzi e dal condizionamento, questo perché il suo fine altro non è che l’autocomprensione, la quale di per sé non è un vero e proprio fine ma è un processo che consente al linguaggio stesso di evolversi e di passare dalla de-tematizzazione alla tematizzazione, come abbiamo analizzato precedentemente. Sarebbe interessante discutere sul senso psicologico dei fonemi e sulle loro contestualizzazioni delle lingue, ma qui si aprirebbe tutto il discorso musicologico inerente anche alle singole culture, pertanto tralascerò, almeno per il momento, di discuterne. Lo sviluppo del pensiero dei bambini è altresì interessante poiché si mette in evidenza come quando sono molto piccoli riescono a comprendere che l’essere sia linguaggio. Il modo in cui lo fanno è capire che il nome esprime veramente un determinato e che tutto ciò che esiste esiste perché è linguaggio. Però ovviamente è qualcosa di intuitivo e non sanno il perché di ciò. Piaget parla proprio di realismo ontologico. Una volta che iniziano a subire l’educazione da parte dei genitori poi ne assimilano i problemi e diventano nevrotici poiché incapaci di fare corrispondere la teoria del mondo alla pratica che essi stessi attuano, costringendosi a fare le cose nel minor tempo possibile in un determinato e specifico modo. Sembrerà assurda come cosa ma i bambini ci riescono proprio perché non c’è alcuna differenza tra interno ed esterno, parlando in tema psicologico. Ad un bambino di 5 anni e mezzo, nel testo di Piaget, “la rappresentazione del mondo nel fanciullo”, gli è stato chiesto che cosa significa pensare e questo ha risposto «quando non ci si ricorda più qualcosa e si riflette» e successivamente, quando gli si è chiesto con che cosa si pensa, ha risposto «con le orecchie». È sorprendente come un bambino di 5 anni e mezzo tematizzi il pensiero come la filosofia greca. Platone scrive nel Sofista che “in fondo, pensare, altro non è che un dialogo dell’anima con sé stessa”. In questo caso vengono prese in esame la bocca e le orecchie, che entrambe sono “ciò con cui si pensa”. Il bambino quindi sente e capisce che il pensiero è qualcosa che testimonia la presenza, esso recupera la presenza. E la filosofia greca intende la verità come disvelamento, ossia come di ciò che viene riportato all’oblio dalla memoria. La “riflessione” indica di per sé proprio l’introspezione, ed è utilizzata come sinonimo di “pensare”. Riflettere è anche ciò che fa uno specchio. Lo specchio accoglie ed emette a sua volta la luce che riceve, e può indirizzarla verso punti che prima non erano raggiungibili. Ciò che ci si deve domandare è come sia possibile che un bambino di 5 anni qualsiasi sia portatore di una conoscenza del genere. Piaget mostra come questa peculiarità sia propria di ogni bambino, prima che adegui il suo pensiero a quello degli adulti ed inizi a mettere in mezzo alla questione il dio, lo spirito, l’essenza, l’idea, il partito, la società, la tecnica e quindi diventare nevrotico. Quel bambino dà al pensiero una funzione ontologica, non mentalistica. Si riporta alla presenza ciò che è minacciato dall’oblio, il pensiero ha la stessa funzione eternatrice che la tomba ha in Foscolo nei sepolcri. E di per sé ciò va a costituire una sorta di fondamento della storia, una sorta di inconscio che permea di contenuti storici, di ciò che Jung definì nei suoi studi come inconscio storico. Non c’è alcuna differenza tra mondo esterno e mondo interno. In ciò che viene riconosciuto come mondo esterno, gli eventi che vengono conosciuti fanno già parte del linguaggio. La nevrosi si presenta perché l’adulto obbliga il bambino a pensare come pensa lui. Questo passaggio si verifica a causa dell’io. In “della grammatologia”, Derrida riporta una cosa interessante osservata da Strauss in “tristi tropici”. Lì le persone erano gelose del loro nome perché il loro nome diceva qualcosa di esse. Si tratta dei tipici nomi selvaggi che esprimono in genere delle qualità o delle azioni. Perciò il nome non può essere divulgato e spesso per non offendere la persona si usa un soprannome. Questo perché il nome tiranneggia l’io, e dando un nome che significa qualcosa, l’io si trova costretto a partecipare alla dialettica. Ora, per il bambino il pensiero è linguaggio, le parole sono entità viventi e non convenzioni. L’adulto pensa in maniera opposta ed il suo io non può tollerare che si pensi in maniera autentica (cioè come fa il bambino). Di conseguenza, esso inizia a pervertire la psiche infantile. Ciò che succede è che si passa agli stadi successivi perché si forma l’io e acquisisce più potenza narcisistica. Se ci pensate bene, quand’è che il bambino entra veramente in società? Dopo i 6 anni, perché quando è a scuola sono richieste delle prestazioni, ed inizia ad essere ricompensato con dei voti. Ecco che si fa narcisista e dopo un po’ passa alla fase cartesiana del pensiero, in cui dio o lo spirito, diventa garante dell’evidenza, ed il pensiero è prodotto da un omino dentro la testa (ciò che Cartesio sosteneva e che Kant rese a luogo col noumeno). Carmelo Bene diceva non a torto che la storia dell’occidente è la storia della phoné, del rumore. Ed oggi più che mai grazie all’overfitting di informazioni che permeano la cultura globale. Lo sviluppo del pensiero non fa altro che ridurre la potenza del linguaggio. E ciò è accaduto pure nella storia del pensiero. Presso i popoli religiosi e metafisici il linguaggio era la parola della divinità che rivelava il mondo. E ciò s’è mantenuto fino alla fine della tradizione ermeneutico cristiana, ossia fino alla riforma luterana che diffuse l’alfabetizzazione e la lettura della Bibbia. Rompendo il clima aristocratico si produsse, inevitabilmente, una dispersione del pensiero presso il popolo, che narcisista poiché reduce da una dottrina malsana, nulla sapeva ovviamente dell’ermeneutica religiosa. Ciò porta a confondere la tecnica ed il linguaggio (Galileo e Bacone) con la conseguente vittoria del primo sul secondo, portando all’illuminismo, al romanticismo, ed in seguito all’età della tecnica. La dottrina della anamnesi platonica e la presunta saggezza dell’infante di cui parla Socrate possono riferirsi proprio a questa perdita di importanza nel linguaggio. Platone ha dato molta importanza al linguaggio. Non a caso per lui la dialettica era ciò che vi era di più importante, ed era la traccia di divinità nell’uomo. Quindi può esistere un linguaggio che rifiuta il mondo e che può essere ritenuto il linguaggio dell’io? No, l’io non ha il linguaggio, ma si comporta, come già accennato come una negazione. Il linguaggio è solo dell’essere, l’io tenta di pervertirlo e di pensare che sia proprio. Tuttavia il linguaggio per l’io è un trauma, quindi il rapporto dell’io con il linguaggio è la coazione a ripetere. L’io ripete il linguaggio per poterlo dominare, perché dominare il linguaggio è la più alta ambizione dell’io. Tuttavia non ci riesce mai, ed in questo è sempre segretamente dominato. L’incontro traumatico con il linguaggio si ripete sempre, ed in questa traumaticità il linguaggio resta alieno all’io. Non riesce mai a dominarlo perché è impossibile comprendere il linguaggio senza ammettere la dialettica. Le cose esistono nella loro sostanza, per l’io. L’essere le fa solo partecipare. E questa è una caratteristica presente a livello dell’inconscio storico. La dialettica non si instaura, c’è già, ciò che si va ad instaurare è infatti l’io, che è la rimozione stessa della dialettica per favorire alla negazione della realtà stessa, la quale si espone neurologicamente sottoforma di piacere (ricercato) verso le cose. Sempre nel libro di Piaget, si va a denotare come un altro bambino un po’ più grande di quello di prima, viene chiesto dove sia il nome delle cose. Egli risponde che è nelle cose, però non dice lo stesso per il suo nome. Ecco il tipico effetto dell’io messo in evidenza: l’io si sottrae dalla dialettica perché se il suo nome fosse reale e come gli altri, allora non sussisterebbe in quanto io. Perderebbe la sua esclusività autoimposta. Attribuire un nome ad una persona è un atto di un altro io, perché vuole dominare narcisisticamente gli altri ed il linguaggio. Pertanto si va a costituire un sistema panoptico dove il nome prevale sull’individuo e dove anzi, egli è sottomesso allo spirito o all’ente che sia per fare in modo che risponda alle sue esigenze, prediligendo pertanto una serie di comportamenti. Ciò significa sottoporsi ad una costante sorveglianza poiché la persona viene fatta sottintendere a dei comportamenti specifici, così che la propria privacy serva in funzione dell’obiettivo di sottomissione. La volontà non ha un nome, essa è già testo dell’essere in quanto volontà. Il nome non serve per dire la volontà, serve solo per dire di qualcosa che è spazialmente connotato da n proprietà. Questo perché essa è potenza, se fosse in un nome non potrebbe rinnovarsi. La volontà è già da sola nel linguaggio con il suo dire l’essere, è la volontà che si dice nel mondo. Ecco che il nome (proprio) dunque si riferisce solo ad uno spazio nel tempo, non ha una connotazione di importanza e non esiste pertanto nessuna proprietà riconducibile a tale concetto se non quella di connotare uno spazio “occupato” da un organismo, sia vivo che morto. Quindi è per questo che certe parole o frasi durante i riti religiosi o di culto vengono ripetute in continuazione, hanno una connotazione più “magica” che semantica e servono unicamente per tentare di sottomettere nevroticamente la natura all’io per mezzo della tecnica, che in tal caso è il rito, il rituale. Alla fine basta che funzioni, no? È questo il senso della tecnica. Pertanto un nome proprio altro non è che un indicale ed è più una questione decorativa relativa alla musicologia o alla mitologia che una questione strettamente ontologica. Per questo motivo i nomi propri in ontologia possono valere solo come proprietà indicali e non come altro, poiché altrimenti sarebbero solo personaggi di un mito, di una storia.

Un mondo senza nomi (propri) è un mondo senza soggetti e pertanto un mondo dove rimarrebbero solo gli oggetti, gli enti. Aristotele nonostante sia il “formalizzatore” della teoria metafisica, che altro non è che la spontanea evoluzione del persistente pensiero empirista, arriva tuttavia ad ottenere la nozione di dialettica ontologica. Infatti dice che l’essenza di una cosa è il logos sulla sua sostanza. In un certo modo però lo porta a perdersi per via della spazializzazione dell’essere. Dice infatti che l’ente si dice in molti modi e che esiste una definizione di essere per ogni determinato. Ma per lui la vera definizione è la forma, perciò esiste definizione solo delle specie ultime di un genere, poiché esse sono i particolari, mentre gli universali pur rimanendo più “importanti” rimangono indicibili. Non a caso in molte religioni e culti il nome di dio rimane indicibile, poiché è lo spirito più universale tra gli universali. La definizione delle specie più anteriori è sempre più difficile, mentre addirittura lui ritiene impossibile definire gli individui perché non hanno una forma generale. Dice che è possibile definire Socrate come uomo, ma non come individuo. Ciò fa pensare due cose: l’aristotelismo, che è alla base dell’oggettificazione, cioè dell’ontificazione, cioè dell’io moderno, preclude già in maniera epistemologica l’esistenza degli individui e li priva di importanza. La seconda cosa è che egli concepisce l’essere solo come linguaggio parlato, cosa che non ha alcun fondamento in quanto è un prodotto del cervello e quindi tra correlati neurali, cui sono cablati da correlati fisici fino ad arrivare al fondamento più fondamentale di tutti, ancora l’essere (in particolare l’essere quantistico). Noi possiamo definire una nuvola in generale, ma non possiamo definire proprio la nuvola che è davanti a noi. Quindi gli individui sono materia e per Aristotele la materia è non essere. Si tratta del più astratto dei concetti nella sua filosofia, ed è un chiaro affronto ai materialisti. Ovviamente ciò implica anche il superamento del concetto di materia, che è necessario abbandonare. Cosa differenzia ciò che vediamo in quel momento come nuvola rispetto ad una nuvola presa in generale? Si dice “una” nuvola, ed in quanto una è una di tante concettualmente uguali, identiche, dove si differenziano solo per la loro “occupazione” spaziale differente. Aristotele dice che la forma è ciò che rende uguali, e che la materia è ciò che rende diversi. Ma la materia è inconoscibile, quindi non esiste il discorso degli individui per lui, perché si può conoscere solo la specie e questa è composta da genere e da differenza specifica. Siccome la materia è già genere, non esiste una differenza specifica della materia prima. E non si può nemmeno attuare una differenziazione per negazione andando a costituire una sorta di non-materia, poiché per Aristotele gli individui rimangono un’aporia. Ecco quindi che il discorso, il linguaggio arriva ad ottenere una valenza ontologica, dicendo che tutto ciò che non è materia non può esistere, poiché non prenderebbe dimora nell’essere. Inoltre le forme individuali sono inconoscibili così come la materia, perché non si può conoscere la differenza specifica di Socrate. Ma il discorso si fa ancora più complicato perché esistono realtà senza materia per Aristotele, anche se sono tali non perché siamo non materia, ma perché o sono puro atto o materia locale. Come antitesi ad Aristotele gli si potrebbe rispondere che l’individualità è conoscibile nell’attenzione verso il singolo generalizzato dato dall’”un”, dalla quantità. Dal momento che lo si analizza nello specifico si evidenziano i caratteri di unicità e diventa “il”, poiché unica è la materia anche nella sua differenziazione. Inoltre dice che la materia è non essere, è quel germe di corruzione che permette il passaggio dal non essere all’essere perché la materia in sé è informe. Per Aristotele ciò è impossibile perché non ci sono specie individuali. Non ci sono specie individuali perché non esistono termini che si predicano solo di un individuo. Per esempio Socrate definisce l’uomo come animale bipede, Socrate è già uomo. Per definire Socrate si dovrebbe necessariamente definire come uomo più un termine che vale solo per lui. E questo termine può essere solo Socrate. Ma dire che Socrate è uomo Socrate è una tautologia (è vero a priori ed è una ripetizione di sé che non porta alcuna informazione se non l’inclusione dell’errato principio di identità, che risulta tuttavia valido). Il massimo che si può definire sono le specie umane come homo abilis, homo sapiens, etc. Ma non si può andare oltre. Per questo la sua filosofia presenta un’aporia che è risolvibile solo grazie all’indagine verso la scienza, ed in particolare allo studio del cervello, alle neuroscienze. Bisogna innanzitutto dire che ogni discorso è un discorso che si fa in un mondo (e questo lui lo dimentica). Dopodiché bisogna dire che essendo il tutto il logos, tutto ciò che porta alla parola è anch’esso linguaggio. Perciò i sensi che permettono poi di dire “questa è una nuvola” contengono implicitamente un discorso informativo che poi attraverso il linguaggio formano un’unità concettuale. Infatti la condizione necessaria per passare dal senso al concetto linguistico è che il senso codifichi un’unità dialettica di informazioni. Tuttavia il senso non sa quando tale unità si forma, ed è per questo che non può modificare il discorso. È solo il linguaggio che accogliendo il dirsi della realtà può dire che quel determinato è una nuvola e lo fa solo per caratteristiche qualitative. Se il senso fosse consapevole allora ci si troverebbe in un’altra aporia: ci sarebbero nuvole più grandi e più piccole che comunque sono nuvole. Il senso tuttavia non sa nemmeno distinguere tra quantità e qualità, quindi mette tutto insieme e se avesse voce in capitolo potrebbe benissimo dare un altro nome a ciò che in realtà è un’altra nuvola. Perciò non esiste la materia, esiste solo il determinato che si determina dialetticamente. Il senso è in grado di riconoscere solo la dialettica, poiché la realtà è già organizzata in unità informative. Se non fosse così ci sarebbe solo indistinzione, e dunque materia, ma non è così. La distinzione non viene creata dal nulla dal linguaggio, il linguaggio la esprime solo. Nemmeno lo spazio è indistinto, ma è distinto in quanto spazio. L’unico indistinto è il non essere, ma il non essere non si può conoscere e dunque non è. Il linguaggio è il superamento della percezione individuale, ma nell’atto stesso del dire conserva in sé il processo che ha portato al dire stesso, così che anche se noi diciamo “ecco la nuvola” ci riferiamo alla nuvola che il nostro linguaggio voleva dire. La differenza tra informazione e concetto è che la prima è inconscia, la seconda no. Dire che al linguaggio appartiene solo il generale è assurdo, perché il linguaggio segue la temporalità storica dell’essere. Infatti se tutto ciò lo stessi dicendo oralmente, si potrebbe soltanto ricordarlo. Ma dal momento che è testo scritto, non si ha bisogno di ricordare e si può già passare alla critica. Perciò la scrittura è una fase più in alto del linguaggio parlato, che dice l’eternità dell’essere in quanto tale. Nel linguaggio parlato l’eternità resta implicita. Con ciò non sostengo che il linguaggio parlato sia inutile e deprecato, ma che anzi, debba essere mantenuto, poiché altrimenti non sarebbe possibile passare dal senso allo scritto. Esistono anche forme di linguaggio al di sotto del senso. Se si eliminasse il senso non si passerebbe da ciò al linguaggio. Sotto il senso c’è la costituzione molecolare. Una molecola si definisce per particolari proprietà ontologiche, e sotto di ciò il linguaggio atomico, poi sempre più giù fino a finire al porsi ontologico in quanto tale. La comprensione non diventa così più vasta, poiché alla fine non si dice nulla di più di una configurazione di atomi, diventando tematica.

Il linguaggio si connota quindi come insieme di relazioni tra proprietà che possono disporre o meno di un’indicalità, ossia di una connotazione al di là del sé, dell’attività psicologica data dal cervello, trovando corrispondenza tra correlato neuronale ed esistenza, sottoforma di determinazione. E da ciò si può intuire come non vi sia dunque alcuna rappresentazione, poiché tutto viene determinato dialetticamente per proprietà, senza includere il discorso dei rimandi. Tutti i nodi di questo grafo della conoscenza che è la cultura portano in loro le definizioni atte a potere ricostruire qualsiasi nodo. Infatti una parola che non ci ricordiamo la possiamo ricostruire per significato, ovvero per le proprietà che compongono tale concetto. La differenza che permette di distinguere tra espressione e rappresentazione è che la rappresentazione è un processo degenerato che deriva dal non riconoscimento della coincidenza tra linguaggio ed essere. Così come per gli aristotelici l’essere non è linguaggio e dunque l’esistenza è solo un predicato, qualsiasi opera artistica altro non è che il supplemento rappresentativo di un significato già a priori perduto perché postulato implicitamente come non esistente. Poi l’interpretazione è postuma: si tratta di inventare un significato laddove non c’è, ed inoltre persino la sublimazione nevrotica è da intendere come un’attribuzione posteriore all’opera. Così come il bambino nella fase del realismo mancato prima scarabocchia e poi cerca un significato, allo stesso modo succedere con l’arte rappresentativa. Essere dominati dalla attribuzione retroattiva del significato impedisce di concepire il futuro. E l’informatica ad oggi ne è piena di esempi, essendo addirittura una rappresentazione il codice morse, il codice ASCII e tutti gli utilizzi tautologici attuati verso il linguaggio binario.

Prima di passare alla classificazione dei linguaggi vorrei spendere ancora due parole sugli studi di Piaget e su come vi siano due tipologie di alienazione nella vita umana. Piaget arriva a delle conclusioni: arriva a sostenere che il narcisismo infantile è diverso da quello di una adulto perché il bambino soprattutto neonato non ha una percezione del corpo ben sviluppata e non riesce a distinguere tra il proprio corpo ed il mondo, quindi per lui tutto è io (da una fase proto-ontologica si decade nell’empirismo). Il modo in cui il bambino arrivi ad avere una posizione privilegiata, nonostante consideri tutto come io, è spiegata bene da Derrida: il bambino piccolo pensa che il mondo che soddisfa i suoi desideri sia egli stesso. Quindi pensa di avere in sé il centro di tutto, egli concepisce il mondo come estensione delle braccia e delle gambe. Ma così come prova piacere succhiandosi il pollice, così lo prova quando il tutore gli dà da mangiare. Di conseguenza ha un narcisismo caratterizzato da una scissione implicita tra parte del corpo periferica e parte del corpo importante, che in genere è la bocca (la sede del pensiero e del linguaggio per il bambino). La prova di ciò, dice Piaget, è che i bambini dicono che gli astri e le nuvole li seguano camminando. Questo “camminare” è prova che siano parti periferiche dello stesso corpo. Ma è una predisposizione biologica a concepire alcune parti come periferiche e altre come centrali, perché nel cervello le varie parti del corpo hanno regioni non proporzionali alle dimensioni corporee. Ad esempio, se ci si tocca i denti con la lingua sembrano enormi, mentre se li si tocca con le mani diventano piccoli. Questo perché l’area della lingua è più grande di quella delle mani. Pertanto bisognerebbe prendere con le pinze il narcisismo di un bambino, poiché è svincolato dalle mura costruite dagli adulti con l’ausilio della tecnica come le ideologie.

Ed a proposito di vincoli, passiamo ora a classificare le due macrotipologie di linguaggio: il linguaggio conscio ed inconscio. Un linguaggio inconscio è un linguaggio vincolato a dei parametri che sono presenti alla nascita e che servono a livello evoluzionistico per offrire una base di comunicazione. Di questo tipo abbiamo il linguaggio non verbale e quello correlato ai simboli che potremmo definire archetipico rifacendoci agli studi di Jung. Questi derivano dalla nascita del protocollo stesso dello sviluppo del cervello. La caratteristica di questo linguaggio è il produrre messaggi limitati e fissi: gli archetipi sono quelli e comunicano sempre le stesse cose. Questi tipi di linguaggio servono perché oltre a permettere l’autoregolazione della vita psichica permettono a degli animali di comunicare. Come potevano gli esseri umani organizzarsi prima del linguaggio se non basandosi su un sistema linguistico vincolato e fisso per tutti? Linguaggi di questo tipo sono presenti in tutto il regno animale, ed il linguaggio archetipico umano è il più avanzato. Infatti quando ci sono le folle o comunque grandi quantità di persone la comunicazione regredisce a quel tipo di linguaggio proprio perché funziona sempre. La ricerca dei precedenti degli archetipi va ricercata nelle forme non verbali delle comunicazioni animali, tanto che loro hanno ancora una funzione motoria molto predominante, la quale è alla base del meccanismo di comunicazione etologico. Gli archetipi sono diventati cognitivi, perché con l’evoluzione si è passati dall’operazione motoria al controllo dell’operazione. Gli schemi motori si possono collegare a due “operazioni logiche” che caratterizzano lo sviluppo del sé, OR ed AND, le quali nomineremo poi rispettivamente come estensione e compressione, ed attraverso un controllo di questi, il movimento di compressione e di estensione si fa puramente cognitivo e non necessita più di un supporto motorio diretto, dato che nei sogni ci si muove pur restando fermi. Un andamento simile si è verificato anche nella scrittura: dalla pittura rupestre fino alla scrittura alfabetica, ciò che viene veramente modificata è la questione dei vincoli: con la ideografica si è vincolati al geroglifico, con la logografica al simbolo, con la symballica ad una parte del simbolo, e con la sillabica alla sillaba. La scrittura di tipo fonetico non è vincolata, è libera. Quindi quando Hegel dice che la storia è il processo verso la libertà, significa che si ripete in ogni fase della storia dell'essere. Si passa dal vincolato al libero, da una comunicazione universalmente condivisa ad una comunicazione che richiede sforzo per essere appresa. Ora, ciò che andrò ad argomentare, è una cosa del genere, paradossalmente, che si può notare anche nel processo logico di comprensione della dialettica. Seguirà dunque un approfondimento rispetto al linguaggio inconscio spiegando come si perdono i vincoli e di come si passa ad un linguaggio cosciente, illustrando la differenza qualitativa tra i due tipi di linguaggio. Ed alla fine si parlerà del processo logico della dialettica, ossia della dialettica che ha consapevolezza di sé come dialettica.

In merito alla regressione data dal brusio della folla possiamo andare ad approfondire quanto segue: Quando una persona è in un gruppo percepisce che la sua comunicazione si debba basare su qualcosa di comprensibile, e siccome la maggior parte della gente dispone di un pensiero per enti, si scompone la parte sociale della conoscenza in categorie, in enti predefiniti. Per questo si forma un'aspettativa sulla situazione e sul gruppo, e succede che le persone si ricodifichino tramite queste categorie. Tale processo si chiama stereotipizzazione del sé e porta ad una depersonalizzazione. Il Sé ragiona quindi con queste categorie costruite che sono basate ovviamente sugli archetipi e sui miti, perché le categorie non si possono creare dal nulla in quanto se fosse così allora l'uomo si limiterebbe unicamente a parlare in modo naturale e invece usa un linguaggio inconscio e regredisce. Ecco perché le folle hanno la dinamica di un fluido e si ingannano di essere altruisti e fare l'interesse del gruppo, in quanto semplicemente usano gli stereotipi, basati sui contenuti folkloristici, per relazionarsi tra loro. Un po' come un teatro in cui ognuno deve recitare una parte, come se al di là di questi ruoli fossero tutti stranieri gli uni agli altri. Per questo la socialità tra gli uomini altro non è che un continuo vociferare di questo rumore che viene sempre più alimentato per sopprimere il silenzio, quel silenzio che farebbe cogliere la morte di quello spirito ormai fatto nascere: la società. E per questo il culmine del linguaggio lo si trova unicamente per mezzo dell’ascolto, nonché della disponibilità per silenzio a disporre di un tempo in cui fare durare un’esplicitazione rispetto all’essere. Ma ciò può essere attuato pertanto solamente per mezzo di un linguaggio svincolato.

Come si tolgono i vincoli? I vincoli di un linguaggio inconscio si possono togliere perché il linguaggio essendo inconscio non è consapevole della sua struttura vincolata e quindi viene utilizzato in modo improprio per comunicare con parte del mondo che non lo parla. Perciò ciò che permette ad un linguaggio di elevarsi e di ottenere la sua libertà è il proprio applicarsi in contesti estranei, è il violare le sue regole semantiche. Il linguaggio funzionale degli archetipi si trasla dunque sul mondo intero attuando un processo di assimilazione da transfert (proiezione più recupero): l'uomo primitivo non ha il transfert solo verso i suoi conspecifici, ma può averlo verso altre specie (ci sono notizie secondo le quali le specie di uomo si incrociassero tra di loro) e anche e soprattutto verso gli utensili. La spinta degli uomini verso gli utensili (e questo passo è fondamentale) non è data da una ipotetica utilità tecnica, l'uomo primitivo non concepisce la creazione degli utensili e il loro utilizzo come qualcosa di tecnico, tanto che sono più gli utensili religiosi e ornamentali che quelli effettivamente tecnici prodotti dai primi uomini. Questo perché attraverso l'utensile l'uomo ricostruisce le funzioni e proietta il problema psichico della differenziazione sul mondo: così che l'espressione "dar forma a" che spesso si usa per l'arte altro non è che il proiettarsi del linguaggio delle funzioni sugli oggetti. Gli oggetti, i feticci, le pitture, sono strumenti con i quali l'uomo inizia la realizzazione del proprio sé. È importante che nonostante gli uomini primitivi raggiungano facilmente lo stadio operatorio formale proposto da Piaget, loro si fissino culturalmente sul sensorimotorio. Quindi vi è una sorta di scissione tra ciò che l'uomo può pensare e ciò che l'uomo pensa e fa davvero. Questo permette che il prodotto utensile non sia concepito in modo motorio nella quotidianità, ma in modo semantico. E quindi che vi sia un ulteriore uso improprio di un linguaggio già usato in modo improprio: l'utensile diventa utensile simbolo, diventa un totem. Il dio non è più espresso con un feticcio che ne emula le caratteristiche, ma viene reso simbolo. Il simbolo è una sintesi (nel senso hegeliano) e costituisce un livello emergente e superiore di analisi nel quale confluiscono quelli precedenti. Il totem è quindi, analogamente alla classe, al metodo o alla categoria, una sorta di promemoria, ed è uno strumento che funziona da promemoria per raccontare la storia di un clan o di una tribù, o nell’ambito informatico per esporre delle elaborazioni specifiche e “umane” rispetto all’informazione. Attraverso il totem è possibile ricordarsi dei contenuti psichici fondamentali. Poi, per la stessa ragione di prima, un simbolo non conservativo viene comunque analizzato in modo semantico e conservativo, per il quale dal totem si passa alla divinità senza corpo, e tutte le statue, pitture e maschere che si fanno di essa sono soltanto delle espressioni concettuali sommarie. Si potrebbe andare ancora avanti analizzando tutti i miti, passando dalla divinità morale a quella immorale, dalla divinità immorale al principio metafisico dell'ente, per poi arrivare pian piano al linguaggio cosciente. Un linguaggio è inconscio perché non sa di se stesso. Di conseguenza si applicherà sul tema che non è ad egli proprio e quindi sarà trasformato da ciò (dell'archetipo si passa al mito) con tale passaggio si ha che la sintassi resti invariata (la sintassi degli archetipi è data dalla logica, da ciò che descriveremo in seguito come archetipi ontologici e quindi l'essere) e che la semantica si modifichi. Quindi è più corretto parlare di lingue o addirittura di “dialetti”. Tale procedura sposta la semantica dal vincolo neuropsicologico iniziale verso l'aspetto del mito (l'appiattimento del significato sul significante assumendo il significante come significato) e di volta in volta perdendo sempre più l'aspetto psichico per l'aspetto storico. La storia ad un certo punto si sostituisce nella semantica alla psiche che resta solo come sintassi attraverso l'ontologia. In questo caso il bisogno psicologico che il simbolo soddisfa non è più riconosciuto (ad esempio la verginità della Madonna non è più riconosciuta come il tentativo di liberarsi dalla sessualità), e quindi esso diventa l'equivalente di una narrazione. La narrazione è un punto morto, è la divisione tra mondo e psicologico, perché l'uomo non riesce più a trovare nel mondo un elemento su cui proiettarsi. Ecco che ora si passa al psicologico, e la narrazione e la speculazione si sostituiscono completamente al meccanismo di transfert. Questa è una coscienza immatura, è quella che Hegel definirebbe come il "negativo", come l'antitesi, come autocoscienza, perché si prodiga solo dell'aspetto psicologico-morale dimenticandosi completamente del mondo. Eppure si tratta di un linguaggio che ha coscienza di sé come tale, perché è il linguaggio psichico dei processi psichici e comportamentali: il linguaggio che usato nei libri tratta dell'uomo, si tratta in poche parole della morale, della psicologia e del diritto. Ma anche della filosofia etica. Storicamente siamo nell'empirismo inglese e a seguire. Quindi l'etimologia così come la genesi letterale è mitica e non è solo archetipica.

I calcolatori usano il linguaggio binario che è un linguaggio vincolato come quello degli archetipi. L’unica differenza è che il pc non è un essere in grado di esteriorizzare il proprio linguaggio. Se fosse in grado di proiettare il proprio linguaggio di programmazione sull’esterno anch’esso si evolverebbe. Gli archetipi sono l’equivalente del linguaggio di programmazione per un cervello, mentre ciò che nel prossimo articolo andrò a definire come archetipi ontologici, sono il linguaggio con il quale si incide la macchina. I linguaggi che si sviluppano per complessità e che perdono i loro vincoli sono i linguaggi di alto livello, mentre quelli di basso livello sono quelli meno complessi e più vincolati. L’essere è sia svincolato che vincolato, poiché si struttura come struttura su cui basare tutti i linguaggi, consentendo ad essi di disporre o meno dei vincoli. E anzi, l’essere è sia il discorso che il suo tema, ossia il discorso che richiama sé stesso in un secondo momento per potersi comprendere. Dopodiché c'è una terza fase che è l'elaborazione successiva del linguaggio, cioè la costruzione della deduzione, che è portata dall'intuizione discorsiva ottenuta per delle premesse tenute in memoria ad un livello più basso. Quindi dire che un linguaggio è diverso da un altro non vuol dire assolutamente che esso non interagisce con l'altro, ma anzi, vi interagisce proprio perché i livelli di complessità sono tali da consentire l'interazione da un livello alto con un livello basso. Ovvio che alla base c'è il livello basso, ma vivere presso di esso significa limitarsi all’immanenza prediligendo sistemi come l’empirismo, i quali in età adulta capitolano inevitabilmente nell'io, mentre vivere in un livello alto significa non capire nulla e prendere tutto per come è senza potervi interagire in modo intelleggibile (nichilismo). Perciò piuttosto sarebbe più opportuno comprendere che il linguaggio va preso come linguaggio dell'essere e non come linguaggio o “solo complesso” o “solo semplice”. Tuttavia può insorgere l'errore di considerare il linguaggio ontologico come linguaggio ontologicamente univoco in modo che si neghi la semplicità o la complessità. Il linguaggio deve essere sì dell'essere, ma dato che appunto riguarda l'essere deve avere la possibilità di indagare le numerose vie che portano all'esplicitazione delle possibilità di poter realizzare, concepire, cogliere, dei determinati per volontà propria. Questo risolve il divario che porta alla specializzazione e al divario tra tecnica e io, demolendo entrambe le posizioni e riportando la cognizione in una struttura decentralizzata e libera dai vincoli sui vincoli: dato che l'uomo agisce solo ad un livello alto di linguaggio, deve avere la possibilità, con questo, di analizzare anche i livelli più bassi. In questo modo egli può comprendere come la psiche lavora e i meccanismi che potranno portare alla realizzazione magari in futuro di un altro essere cosciente ma di manifattura sintetica. L’ontologia consente in definitiva di risolvere il problema delle categorie. Queste sono determinazioni sviluppate per complessità e non sono a sé, ma sono dialetticamente strutturate con le loro componenti, per proprietà. Perciò una classe non può essere vuota, poiché il nulla non può costituire nulla. 0 and 0 dà falso, cioè una categoria che rientra nella dissoluzione, in tutto ciò che non può essere, riportando gli indeterminati in un contesto dove la contestualizzazione dimostra l'assurdo. In altre parole, le categorie si determinano come costruzioni complesse e dire che esse sono enti significa giustificare il non sapere cosa c'è sotto con l'ipocrisia di non voler sapere cosa c'è sotto. Si dimostra così la considerazione ontica vige solamente per ignoranza rispetto all’essere, portando maggiore concentrazione sull’absurdum del non essere, sviluppando la realtà come struttura di ciò che è oltre a sé stessa. La differenza tra un sistema vincolato e uno non vincolato consiste nelle dialettiche tra sistemi complessi e sistemi semplici. Il linguaggio chimico per esempio, necessita di un contatto diretto tra due sostanze perché esse non consentono un’interazione affinché una possa instaurare una reazione chimica nell'altra equilibrandosi termodinamicamente. Questo avviene anche perché il compito della sostanza chimica è quello potenzialmente di reagire e non di registrare dati differenti. Essa è completamente passiva e dunque “discute” con le altre sostanze ad un livello così basso che non gli è consentito sviluppare discorsi dialettici più complessi (non dispone dell’energia e dell’integrità necessaria per farlo, seppur abbia presso di sé una maggiore probabilità di esplicitare la potenza ontologica di un sistema affine a quello del neurone). Presso una cellula invece il discorso cambia già e si ha che essa deve registrare le reazioni chimiche affinché si possa gestire un sistema più complesso. E questo sistema di reazioni interne, è ciò che permette ad esse di svilupparsi come essere vivente. Ciò che vive non è altro che un sistema mnemonico dinamico. Le cellule vivono perché hanno il DNA, senza di esso sarebbero solo sistemi chimici strutturati senza possibilità di replicarsi dal sistema stesso. Non vi è dunque una classificazione netta tra linguaggi di alto e basso livello, ma solo una sfumatura che intercorre tra di essi. Pertanto vorrei proporre un'ulteriore classe di mezzo che chiamerei linguaggi di medio livello, giusto per porre un’intermedialità tra i due livelli in estremo. Classifico quelli a basso livello come quelli vincolati e che hanno reazioni chimiche o fisiche non sistematiche. Quelli a medio livello che sono quelli inconsci e che permettono ad un essere vivente di reagire anche a distanza per mezzo della propria capacità integrativa dell’informazione. Ed infine, quelli ad alto livello che sono quelli consci e che permettono all'essere di autocomprendersi. Il vincolo del linguaggio dipende dai suoi stati semantici. Se la semantica è fissata su parametri fissi, allora il linguaggio è vincolato. Un esempio di questo sono gli archetipi. La "fisicità" e tutto ciò che è fuori dalla logica non può essere preso in considerazione nella determinazione dei vincoli, ma si deve condurre uno studio di tipo semantico e sintattico e il tutto finisce lì, il canale di comunicazione non importa. Il linguaggio chimico, per esempio, ne ha uno solo perché gli atomi quelli sono. Il linguaggio cellulare è proteico ed ha 3 stati. È anche vero però che non esistono veri e propri canali, ma solo luoghi dove l’informazione può mantenere la propria integrità senza subire interferenze date da dissipazioni termodinamiche. Anche i canali di per loro sono determinazioni linguistiche. O meglio, ciò che definiamo come canali non sono altro che le strutture su cui vengono basate altre determinazioni. La fisicità è anch'essa composta da logica in diverse determinazioni, solo che non autocomprende sé stessa. Infatti la logica che intendiamo noi si esplicita solo presso la coscienza. La logica come incosciente è la logica del mondo che opera per meccanismi non esplicitati. Ma non è ciò su cui bisogna basarsi per capire il tipo di vincoli che ha un linguaggio. Lo stato archetipico ha per esempio 4 vincoli. Bisogna solo considerare gli stati semantici che sono date dalle forme indipendenti che il significato può assumere in un determinato linguaggio. Nel linguaggio parlato gli stati sono elevatissimi perché non solo ci sono gli stati delle lettere, ma anche quelli delle fasi e poi dei periodi. Inoltre se si comprende l'ontologia che è il linguaggio universale si può accedere ad ogni linguaggio. Il linguaggio verbale siccome è cosciente è riflessivo, nel senso che si riflette, e quindi per una analisi complessa è necessario assumere tutto. Così come per esempio nel linguaggio mitico bisogna inserire dentro nel numero di stati anche i 4 degli archetipi. E per stati semantici intendo delle forme indipendenti intendo anche la semantica che avviene con i livelli più bassi di linguaggio. Prendendo in esami i linguaggi di programmazione abbiamo assistito ad una questione simile con la loro evoluzione, dove dal linguaggio vincolato del binario si è passati al linguaggio esadecimale, ai linguaggi compilati e poi ai linguaggi interpretati, così che potessero essere più svincolati e simili alle lingue. Sarebbe interessante approfondire linguaggi come Lisp ed i suoi dialetti ed il modo in cui sono stati costruiti, magari paragonandoli a linguaggi emblemi del sistema metafisico come Java, ma questo sarà possibile magari farlo con uno studio futuro esposto in un futuro articolo.

Nel prossimo articolo parleremo della logica, nonché dei suoi operatori e dei loro fondamenti ontologici. Andremo pertanto a discutere degli archetipi ontologici e dell’inconscio ontologico.

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