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L’essere e le sue proprietà formali

Che l’essere non sia un predicato è un principio fondamentale. Al momento abbiamo tre assunti che devono stare alla base di ogni ontologia:

  1. Principio di Parmenide: l’essere è e non può non essere.
  2. Principio di Eraclito: ogni determinazione è determinata solo in virtù della dialettica.
  3. Principio di esistenza obbligatoria: se qualcosa ha almeno una proprietà, allora esiste.

Il terzo principio ci consente di asserire che “a ha la proprietà di non esistere” è una contraddizione e non un oggetto impossibile, perché esistere è avere almeno una proprietà, e siccome a non esiste non ha proprietà. Inoltre l’esistenza non può essere concepita come una proprietà. Qualcuno potrebbe dire che l’essere è una proprietà di proprietà ma non è così, perché le proprietà sono come già ribadito, degli strumenti nostri. Questi certamente esistono e ci consentono di individuare un determinato, e chi dice che l’essere è una proprietà di proprietà confonde senso e riferimento. La proprietà è una cosa che è nel nostro cervello e in base alla sua configurazione ci consente che questa possa essere utilizzata per riferirsi al determinato. L’esistenza o meno del determinato è indipendente da quella della proprietà con cui lo determiniamo. Questo innanzitutto perché più proprietà possono individuare lo stesso determinato e una proprietà può individuare più determinati, ma anche perché la proprietà è un determinato distinto dal determinato che individua. Infatti per individuare la proprietà della sedia noi diciamo che la proprietà della sedia è nel nostro cervello in corteccia parietale posteriore, non che è una sedia. Anche la proprietà di essere una proprietà di stare nel cervello è una proprietà che sta nel cervello, ma in un punto diverso. Precisamente, essendo una nozione complessa, nel polo temporale sinistro. Per cui dire che un determinato esiste vuol dire che esso stesso esiste se gli possiamo attribuire almeno una proprietà, e questo non è idealismo perché il rapporto tra determinato e proprietà come abbiamo detto non è un rapporto di causalità logica, ma è un rapporto descrivibile solo neuroscientificamente.

Da ciò si può pertanto formalizzare un quarto principio che è quello che descrive le proprietà ontologiche: Screenshot from 2023-01-26 08-23-07.png

L’ontologia con questo principio va a descrivere pertanto se un’esistenza risulta possibile o meno e lo fa cercando di capire se tali proprietà sono tematizzabili in quali contesti, il contesto spaziotemporale, che dispone di un suo discorso, il discorso relativo ad una storia specifica, il discorso relativo alla biologia, alla matematica, alla filosofia, all’informatica, all’elettronica, alla radiotecnica e così via. Le discipline in fin dei conti sono dei discorsi, ma i discorsi sono intrecciati e non possono fare a meno di andare a parare in altri discorsi, poiché i limiti di una disciplina sono solo le vie per ampliare la cultura presso altri discorsi. Se l’ontologia definisce una descrizione di ciò che è l’esistenza, la logica va a definire il discorso rispetto a come è possibile che sia strutturato in quel modo, con la fisica si va a definire l’interazione tra le componenti fondamentali dello spaziotempo sicché una determinata esistenza esista per come è, e con il resto delle scienze si va a specificare tutti i correlati di più alto livello, del come e del perché avvengono uno o più eventi correlati a tale esistenza, dove gli eventi altro non sono che discorsi rispetto a proprietà specifiche delle esistenze stesse, argomentando dunque l’interazione di tale esistenza con il resto delle esistenze, con l’essere. Perciò l’enunciato per definire se qualcosa possa esistere o meno è quello della formula, il quale si può tradurre in: esiste un elemento n per ogni proprietà di n appartenente ad n. La scelta di n non è casuale ed espone proprio la capacità dell’esistenza specifica di potere essere quantificata e raccolta sotto un’altra esistenza n o un’altra proprietà p. Un cane può essere inteso sia come esistenza che come proprietà, poiché il cane esiste e dispone di proprietà p, che possono disporre a loro volta di proprietà e così via, fino a realizzare una complessa rete di discorsi, dove per ogni parola è possibile effettuare un discorso.

Se da una parte abbiamo dunque un’assenza gerarchica offerta dalla connotazione dell’essere per proprietà, dall’altra abbiamo la gerarchica offerta dalla storicità ontologica, assunta pertanto dalla temporalità entro cui le fasi ontologiche si susseguono. Queste fasi altro non sono che una strutturazione della tematicità dell’essere rispetto all’essere, nonché per mezzo della dialettica. L’essere pertanto può dirsi tematizzato orizzontalmente, per mezzo delle relazioni tra le proprietà, dove le proprietà stesse sono altre proprietà relazionate tra loro con altre proprietà, fino a giungere al grado dialettico più elementare, che è ancora l’essere, oppure può tematizzarsi verticalmente, strutturando una gerarchia temporale relativa all’integrazione dei nodi nei grafi stessi. Questa struttura è più ben nota per chi conosce già le leggi di Hebb, ossia le leggi che descrivono il funzionamento dei neuroni, ma di per sé si può dire che è una questione prettamente ontologica e che connota la realtà nelle sue differenziazioni. La dialettica verticale è invece quella dialettica che si occupa di descrivere il processo di autocomprensione dell’essere nella sua storicità, nonché nell’insieme delle sue temporalità. Dal momento che l’essere non è solo spaziotemporale, è altresì vero che le esistenze che disponendo di un livello di integrazione tale dell’informazione, hanno portato alla composizione di esistenze composte da proprietà in maniera impossibile e quindi di esistenze fittizie spaziotemporalmente, che anch’esse dispongono tuttavia di una temporalità. La dialettica delle esistenze che permette a ciò che esiste di esistere è orizzontale, ed è la struttura dell’essere, quella che le descrive per un discorso tramite proprietà, perché non prevede alcuna gerarchia. Dentro questa dialettica vi è quella storica, la quale si sviluppa su tre principi fondamentali:

  1. Pre-tematizzazione.
  2. De-tematizzazione.
  3. Tematizzazione.

L’essere pretematico è l’essere dello spaziotempo, quello connotato da una bassa integrazione dell’informazione, nonché quello dove prevale il livello fondamentale del tempo, quello relativistico, il quale pur applicandosi ai livelli successivi, non fornisce alcuna struttura se non la capacità differenziativa e dispersiva che caratterizza la termodinamica dello spazio. È infatti noto dal secolo scorso come il tempo non sia una questione assoluta ma di come esso sia relativo alla massa e all’energia: più una massa è grande e più il tempo “scorre” lentamente e più è piccola più “scorre” velocemente, il tutto tenendo in considerazione le implicazioni dell’osservatore e della misura riferita alla velocità massima possibile, ovverosia quella dei fotoni (della luce) nel vuoto. Non esiste un tempo che vale ovunque, c’è un mio tempo, tuo tempo, un suo tempo, a seconda di quanto ci muoviamo velocemente nello spazio e a seconda di quanto riusciamo a sprigionare energia sottoforma di radiazione o di massa. Non voglio fare un approfondimento relativo alla fisica, anche se mi piacerebbe molto, ma per chi ne è più interessato consiglio bene o male tutti i testi di Carlo Rovelli, ed in particolar modo la teoria della gravità quantistica a loop (detta anche LHC, loop quantum gravity). Ad ogni modo, quando lungo questi articoli andrò a discutere del tempo dell’essere, mi riferirò pertanto non ad una struttura lineare, ma piuttosto ad una struttura sfumata su vari punti ed in maniera differente, poiché ad ogni differenza di massa ed energia corrisponde un andamento differente. Immaginarlo è abbastanza difficile, ma basta pensare ad un liquido che ghiaccia in punti differenti per comprendere come la temperatura nei diversi punti possa essere assunta analogamente al tempo. Va ricordato a tal proposito che lo spazio è temporale, ma il tempo non è spaziale, perciò questa metafora è molto azzardata e serve solo per fare concettualmente una “visione” d’insieme della questione temporale senza includere il metodo cartesiano che si basa invece sui punti. Il pretematico è il discorso che non ha come tema l’essere dunque, ma che è però prodotto da esso. Nella de-tematizzazione il tema è l’altro dall’essere, cioè la negazione (l’io). Nella tematizzazione l’essere può scegliere sé stesso dopo essersi smarrito l’io. L’alienazione è funzionale alla conoscenza in quanto essa permette la scelta. Non esiste scelta senza alternativa, perciò anche l’io rientra nella storia dell’essere, ma qui si giunge all’essere detematizzato.

Alla formazione di sistemi sempre più integrati, in questo caso i cervelli biologici, ed in particolare quello umano, arriva la detematizzazione dell’essere, la quale riguarda la strutturazione dei sistemi descritti negli articoli precedenti che vanno dall’empirismo al nichilismo e che quindi riguardano la tecnica e il processo di negazione rispetto alla dialettica del reale (tale processo di negazione viene nominato in filosofia come io). Al fine di non cadere nella morale umanistica, va detto che anche gli altri animali dispongono di un io, come per esempio alcune specie di scimmie. Appartenendo al nostro stesso ordine dispongono di sezioni anatomiche cerebrali con capacità cognitive “superiori” che si avvicinano leggermente alle nostre, seppur rimangano strettamente limitate. Hanno infatti un livello di coscienza inferiore al nostro ma sono molto più intelligenti per esempio nei problemi di problem solving, essendo un’abilità più pragmatica e relativa ad elaborazioni di più basso livello. Le scimmie hanno un io come quello degli uomini ed è molto più antico e radicato nella storicità di tale specie. In alcuni comportamenti si possono riscontrare persino la presenza di alcuni miti, tra cui quelli somatici. Dispongono dell’incapacità di poter comprendere tuttavia la spaziotemporalità della realtà come espressione dialettica. Il motivo è che determinate scimmie arrivano a comprendere per poi comunicare mediante una tipologia di linguaggio come quello dei segni. È perciò possibile che queste specie possano sviluppare una concezione di tempo ma con l’unica differenza che tale temporalità nella scimmia sia minima, poiché essa è priva di un livello discorsivo che possa portarla ad una comprensione discorsiva della realtà come accade nell’uomo, perché vincolato. La storicità è un fattore critico nella comprensione dell’essere, e poiché la storia è discorso, nell’uomo ha possibilità di essere espressa andando a superare l’io. Al contrario, in animali che possono sviluppare una concezione labile di tempo, ma sono privi di capacità discorsiva, la spaziotemporalità non trova modo di essere esplicitata, da qui ne può derivare che in tali contesti l’io sia più forte. E ciò trova conferma negli studi etologici in merito a tali specie. Le scimmie anche se apprendono una lingua dei segni la usano sempre in modo contestuale, ma mai per esprimere ciò che pensano. Per loro il linguaggio è un comportamento che serve per ottenere delle cose. Diciamo che la società pensa come pensa la scimmia, ed infatti la componente storica manca nella scimmia nonostante alcune di queste sono in grado di costruire utensili e di apprendere richiami specifici per tipi di predatori. Altri animali come le orche hanno sviluppato in base ad una situazione analoga alle scimmie, una cultura, rendendole di per sé culturalmente più avanzate. Dispongono infatti di un linguaggio tramandato di generazione in generazione che gli consentono di comprendere meglio delle strategie di caccia che dipendono dal contesto in cui vivono, trasmettendole ai discendenti. La fase necessaria che ogni organismo vivente deve affrontare nell’evoluzione dell’integrazione e nella strutturazione delle informazioni risulta pertanto essere il linguaggio come supplemento anziché come fondamento, alienando da sé il discorso. In altre parole cercano di trasformare il linguaggio in uno strumento perché in questo modo non lo sentono come parte del corpo e se ne possono disfare a piacimento. Il discorso indebolisce l’io necessariamente, le scimmie non avendolo (o avendolo in forma debole), fungono solo da modello per l’uomo nella prevalenza dei casi. Il linguaggio diviene nel nichilismo, nell’ultima delle alienazioni, un dispositivo di comunicazione esclusivamente interpersonale, ponendolo in una sostanzializzazione estrema, come abbiamo già discusso nel precedente articolo, su un piano sociale, o meglio delineato ad un concetto “universale” che non può avere alcuna realtà concreta poiché adialettico: seguendo tale percorso si denota come si riduce il discorso soltanto ad un sistema di comunicazione nel quale s’insinua, prevalendo, una sfera completamente soggettiva dei comunicanti volta ad una relazione con un fine pressoché tecnico. Dunque paradossalmente il dialogo è determinato dalla relazione delle controparti che si collegano in un “tutto organico”, ovvero dal gruppo fino alla costituzione di una società, che ha la presunzione di avvalersi della facoltà di produrre il linguaggio. Questo equivale a dire che esso è conseguenza della società, che la società stessa implica il linguaggio. Ma in realtà, il logos, l’essere, il discorso esistenziale rispetto a sé stesso, è un principio e non è un prodotto, non può essere fondato da alcunché e inoltre, non è proprietà di alcuno, poiché è tramite chi si pone la domanda sull’essere che esso può trovare il suo discorso nel quale esplicitarsi liberamente. E da qui passiamo all’essere tematico. Quindi la società mediante il potere discorsivo tenta di estrapolare il concetto stesso di individualità e demonizzarlo, per circoscrivere tutto in un agglomerato sociale nel quale l’individuo sarà portato a deindividualizzarsi verso l’alienazione. Questo potrebbe avere come scopo la frammentazione che vige alla base del potere, poiché essa conduce inevitabilmente all’infantilismo, essendo una regressione a stadi più arcaici della struttura delle informazioni, come abbiamo già analizzato nei precedenti articoli. Ed essa è una condizione altamente manipolabile da chi sta ai vertici della struttura ad albero. I padri ereditano le conseguenze nei figli. Epistemologicamente la società si pone come dimensione trascendentale che si dà a priori di ogni conoscenza. La differenza tra Kant e la realtà della società è che la società si pone come a priori pratico. Significa che la conoscenza si produce con il comportamento in questo caso e non con il pensiero. La società pertanto non ha accesso alla mente, non può comprendere un concetto mentale, e per questo motivo essa riduce tutto ai comportamenti. Un individuo sa che un altro individuo ha dei pensieri. La società non può saperlo, l’istituzione è comportamentale. Lo stato può agire solo sui corpi e sui comportamenti e non ha un accesso diretto alla mente e non potrà mai averlo. Il controllo dei neuroni avviene sempre a posteriori e con una latenza. E potrà infatti solo procedere per mezzo del potere a condizionare la mente rendendola un elaborazione dovuta a mutazioni comportamentali, cosa che la porterebbe sicuramente ad una regressione verso l’empirismo, ma questo lo abbiamo già visto analizzando in senso stretto la struttura nichilista. Lo stato conosce solo il comportamentismo, dove per stato si intende qualsiasi sovrastruttura che si pone come istituzione dello spirito rispetto all’ente, nonché come ente spirituale per gli altri enti che invece sono corrotti poiché spiritualmente frammentati.

Come precedentemente annunciato, in ultima istanza vi è l’essere tematico, che può essere a sua volta suddiviso in essere tematico ed in metatematico. Il primo riguarda l’insieme dei linguaggi che dispongono di un medium dinamico e che perciò una volta che viene utilizzato si scompone nelle sue proprietà fondamentali, come per esempio le lingue o la musica non scritta ma suonata e non registrata; mentre il secondo riguarda l’insieme dei linguaggi composti da medium con possibilità temporale che permette sul lungo periodo la trasmissione dei significanti e pertanto anche quella dei significati, per questo esso si riferisce a tutti i linguaggi che dispongono di una forma scritta e che possa essere resa la più durevole possibile. La scrittura differisce dal parlare perché essa si apre alla temporalità eterna dell’essere. Il parlato può essere solo ascoltato e si può dimenticare, ciò che è scritto no. Se io parlo posso semplicemente dire, se scrivo posso rileggere ciò che ho scritto e comprendere quanto ho detto, e grazie anche alla punteggiatura e allo spazio tra le parole, posso comprendere il vuoto autentico che è ciò che permette la differenziazione, nonché la quantizzazione delle proprietà. Il prefisso meta- rispetto alla tematizzazione sta ad indicare la capacità della scrittura di porre il lettore dinnanzi al discorso dell’essere in quanto tale e di comprenderlo in quanto discorso. Nel dialogo si è dentro il discorso, e siccome non se ne può osservare la struttura, si può dire l’essere ma non viene tematizzata la struttura del dire. La differenza tra tematico e pretematico ovviamente non è netta e dipende molto dalle questioni poste dall’essere pretematico, anche perché altrimenti il tutto sarebbe in contrasto con le leggi della termodinamica, ed in particolare con ciò che riguarda le leggi della conservazione dell’energia.

Prima di concludere, vorrei porre l’attenzione su un tema appena accennato fino ad ora, ossia di come tutte le descrizioni del tempo non siano in realtà corrette. La dicotomia che ha percorso la fisica è quella che ha visto opposte due teorie: il tempo come misura del movimento (Aristotele, Einstein) ed il tempo come entità assoluta dotata di una propria autonomia (Newton, Bergson, Heidegger). Infatti nel libro di Heidegger si cerca di trovare nel tempo la risposta alla domanda sull’essere e questo è abbastanza grave, perché non si permette all’essere di rispondere da sé alla propria questione. Se il tempo viene inteso come una mera misura lo si spazializza, non lo si definisce in modo temporale, motivo per cui nella parte conclusiva di questo articolo discuterò di come tutte le raffigurazioni della struttura ontologica dell’informazione sia in realtà solo un’approssimazione, poiché il tempo può essere espresso solo con una cognizione temporale della quarta dimensione, cosa che non è facile per molti. Alla fine Zenone con il paradosso della freccia e quello di Achille, ci mette in guardia su ciò che accade quando il tempo è completamente spazializzato. Del resto non si può però accettare nemmeno l’altra posizione, ossia quella che fa del tempo un assoluto. Tale posizione parte da Anassimandro (tanto bramato dall’illustre fisico Carlo Rovelli), ed è quindi una posizione naturalista. L’altra, che sottomette il tempo al numero, si può definire invece empirista. In entrambi i casi vi è un errore, perché nel caso del naturalismo il tempo diventa un ente privilegiato (metafisica), mentre nel caso dell’empirismo il tempo subisce una quantificazione (aristotelismo, atomismo). Quindi tutte le concezioni di tempo, e quelle che poi seguiranno, partiranno sempre da questo nucleo. Bisogna fare ciò che non è stato mai fatto, ossia concepire la temporalità a partire dall’essere. Esso non può essere concepito come atemporale siccome l’essere è dialetticamente costituito come storia, la dialettica stessa è ciò che permette all’essere di essere temporale. Un essere adialettico è un ente, ed è quindi privato della sua temporalità o vincolato da una temporalità spaziale come i casi precedentemente esposti. Se andassimo a fare un ragionamento induttivo saremmo condotti ancora una volta nel sistema nichilista, poiché concependo le proprietà come essenze, come spiriti e quindi come universali, andremmo a dire che le proprietà non sono temporali e che si connotano temporalmente in base a qualcosa che non è una proprietà. Ma dire qualcosa che non è una proprietà è dire qualcosa che non può essere, poiché si dice esternamente ad esso. E pertanto è dire che l’essere è, cosa che contraddice il principio di Parmenide. È pertanto opportuno separare i due concetti: tempo e temporalità. Il tempo è una riflessione dell’essere sulla propria temporalità. La temporalità è invece una proprietà del discorso. Essa coincide con l’atto stesso di dire. In quanto l’atto non è concepito in modo immanente assieme al dire, vi è una temporalità. La temporalità è la differenza che permette di concepirsi come dialoganti e per questo possiamo dire che è una questione riferita alle proprietà stesse, le quali essendo, si discorrono nelle differenze. La logica messa a disposizione del linguaggio altro non è che l’elemento fondamentale che permette di connotare tali differenze per mezzo della dialettica, dello scontro, della guerra, direbbero gli antichi. Eraclito disse a tal proposito “Polémos è padre di tutte le cose e di tutte il re; e gli uni disvela come déi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi”. Da questo frammento si può intuire anche come l’essere concepisce il suo tempo in modi differenti. Esistono i modi autentici ed i modi inautentici. Il tempo essendo una “riflessione dell’essere sulla propria temporalità”, è riconducibile alla peculiarità riflessiva dell’essere, in quanto nel tempo l’essere ha come tema lo strutturarsi del suo discorso.

La temporalità è un processo che si tesse e si dispiega attraverso il tempo poiché essa è l’atto stesso di dire, come precedentemente affermato. Dunque è lo svolgersi del discorso dell’essere che si discute, e questo lo si può collegare soprattutto alla scrittura, essendo quest’ultima un evento non psichico che ha strutturato e fondato nel corso del tempo la sua storicità attraverso la temporalità, poiché nella temporalità, la realtà si organizza ed esperisce la sua storia attraverso la scrittura stessa (essere meta-tematico). Il tempo è la storia dell’essere che procede verso la sua comprensione. Fino ad oggi si è concepita la storia in una direzione a senso unico, ma non è così. Alcune branche della psicologia sono per esempio analoghe alla filosofia platonica, dando l’impressione di riviverla, quindi di per sé esistono dei “pensieri base” che poi si sviluppano nelle varie epoche. La psicanalisi rivive proprio la filosofia platonica perché è come se si basasse sulle idee platoniche, seppur in forma molto più grezza. Per Platone i generi sommi sono essere, identità, diverso, moto e quiete. Per Freud solo Eros e morte. Il corso del pensiero sembra essere sempre quindi lo stesso, seppur oscilli principalmente tra due idee fondamentali: empirismo e metafisica. Però questo è possibile da capire solo se ci si rende conto del progressivo svincolo dell’essere basandosi sulle proiezioni. Fino a Kant c’è stato il tentativo di psicologizzare. L’idealismo tedesco è un tentativo di recuperare la natura psicologizzandola, ed il concetto di Geist serve a questo. Per cui Freud si trova nella stessa situazione di Platone, come sintesi di una corrente psicologica e naturalista. Il tentativo di rendere mentale la natura è fallito, per cui con lui inizia il tentativo di rendere naturale la mente. Nella psicoanalisi si è scelta poi la sessualità perché è l’unica componente che avrebbe permesso questo artificio. Ciò che andrò a proferire ora sarà sgomento di molti poiché in tale concetto molti ne hanno nutrito un’ideologia o una sorta di culto: la sessualità non esiste, è un prodotto del potere. Essa è il primo modo di rendere metafisico il corpo, poiché tutto il discorso su di esso, come ad esempio quello pulsionale, è un discorso che decade storicamente. Bisogna quindi innanzitutto opporsi alla sessualità come concetto. Questo significa eliminare il mito della sessualità come simbologia primaria, semplicemente perché essa non esiste. Non si dà nella natura qualcosa che si chiami “sessualità”, perché essa non è autonoma, non è nulla. Anche biologicamente, l’apparato riproduttore è giustapposto a quello urinario e i cosiddetti ormoni sessuali in realtà svolgono funzioni metaboliche che non hanno per nulla a che fare con la sessualità. Il testosterone per esempio viene prodotto svolgendo anche solo attività fisica e viene secreto in minima parte anche dalle ghiandole surrenali. Ma non è questo il punto, il punto è che il tentativo di rendere naturale la mente viene attuato prendendo qualcosa che non è affatto naturale. La fede nella sessualità per la stragrande maggioranza delle persone è più radicata di quella in Dio. Si tratta di capire semplicemente che non esiste un’esperienza della sessualità. Non esistono pulsioni, desideri, bisogni e così via dicendo, perché quello che si intende come “desiderio sessuale” è semplicemente un desiderio “archetipico” tradotto in una particolare lingua somatica. Non c’è un’autonomia del simbolo e non esistono i doppi sensi. È stato inventato il mondo sessualizzato che ha trovato la sua massima espressione nella psicanalisi perché essendo la sessualità la dimensione del nulla, può con il biopotere creare tutto. Perciò i movimenti successivi alla psicanalisi hanno trovato nel potere il principio. Foucault, un autore che consiglio vivamente di leggere, ha analizzato questa questione nel suo libro “storia della sessualità”. Per cui l’altro movimento è stato quello di vedere nel potere una forza creatrice che dissimula sé stessa. Tuttavia il vero problema è questo, che la tecnica e l’io si costruiscono per natura il loro sistema di sapere e poi questi confliggono tra loro. Ed in mezzo a tutto questo c’è il percorso dell’essere che viene distorto sia dall’io che dalla tecnica. Queste poi si vanno ad unire facendo confluire la metafisica con l’empirismo, dando origine alla scienza, che è il primo sistema fondato da Aristotele, utilizzando il biopotere. Ma siccome sono inconciliabili perché una cerca l’immanenza e l’altra la trascendenza, si fa valere solo ciò che è immanente facendo in modo che più nessuno possa agire per ciò che è trascendente. La tecnica è la superstite da questa unione e dissolve la metafisica in un dilaniante oblio tecnico, che in tempi maturi va a realizzarsi come nichilismo. Quindi la morte della scienza non è altro che la maturità della tecnica, poiché a comandare non è più alcuno spirito, ma sono i dispositivi, sono gli enti. Nella scienza coesistono metafisica ed empirismo perché mediante tale sistema, la natura può essere dapprima ontificata (resa un sistema di enti) e frantumata in enti, così che tali enti possano essere trascesi per poter essere quantificati e di conseguenza racchiusi in inseità, con l’unico scopo di concepirle come mere presenze sulle quali indagare e alle quali attribuire un determinato valore. Inizialmente la metafisica prevale nella scienza, ma poi con la scoperta dell’infinito è l’empirismo a prevalere, e poi infatti la scienza aliena da sé l’umanismo (la morale umanistica), che poi si trasforma insieme alla scienza in vacuità, ossia nel sistema dove non vige alcun sistema, che a sua volta postula lo stato, che a sua volta porta al nichilismo. Queste sono ripetizioni dei primi articoli, ma almeno ora avete la comprensione di cosa sia il tempo e di cosa sia la temporalità in relazione all’essere.

Semplificando di molto, la questione del tempo per gli occidentali è raffigurata in modo lineare, mentre per gli orientali in maniera circolare. Un’accezione abbastanza moderna vuole che il tempo venga concepito come una spirale, così che rincontrandosi trovi la coincidenza per superarsi. L’espressione autentica del tempo però è la temporalità, come abbiamo già analizzato, quella di Bergson chiama durata. Affinché qualcosa accada ci vuole tempo. Questo significa che il tempo non è una sequenza di istanti. La concezione di tempo lineare appare infatti solo in occidente e solo con il cristianesimo. Nella filosofia greca il tempo è un circolo e colui che rivoluzionò tale concetto fu Agostino, e questo perché nella cristianità e nel mondo greco si hanno due concezioni diverse della rivelazione. Quindi la concezione lineare del tempo è tipica del cristianesimo, da cui ne è derivata la scienza. La durata, ossia la vera comprensione del tempo, perviene dal tempo stesso, dunque dal sé in relazione con l’essere. Non c’è alcun “essere fisico” di per sé, poiché la fisicità è possibilità. Il mondo fisico è infatti il mondo della possibilità, se analizziamo il tutto su scala quantica. Lo spazio è una relazione così come lo è il tempo, sono due modi, due relazioni diverse da intendere sulla base della spazialità e della temporalità. Il tempo perviene al sé e lo spazio al non sé, in modo che entrambi, insieme, danno lo spaziotempo. Nelle discipline scientifiche come la chimica, prima che vi fosse la rivoluzione culturale portata dalla fisica quantistica, si concepisce la materia come materiale fisico, dunque tutto ciò che ha massa e occupa spazio, in termini ontologici implica che i determinati si esprimano secondo questo concetto. La chimica è però un livello di analisi superiore alla fluttuazione quantistica perché studia già l’onda collassata. Il tempo è una dimensione fondamentale dell’essere così come lo è anche lo spazio, del resto lo spazio fonda le condizioni stesse di possibilità per la fisicità, così come il tempo fonda le condizioni di possibilità del sé.

Nel prossimo articolo andremo a discutere della questione del linguaggio (dei linguaggi) come risultato del discorso dialettico tra le esistenze, mettendo in risalto come anch’esso non sia altro che una questione ontologica.

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