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Moore e un’ontologia per proprietà: prima parte

In questo articolo andremo a discutere delle tesi di George Edward Moore, un famoso filosofo analitico che può essere considero importante quanto Russell, Frege e Wittgenstein; da non confondere con Gordon Moore, ideatore della famosa legge di Moore, che in questo ambito non è interessata in particolar modo. Moore nei suoi scritti cerca di isolare il concetto logico di predicato per non fare confusione con la grammatica. Poi con l’analisi linguistica cerca di capire, attraverso l’esempio delle tigri, che cosa significa “delle tigri addomesticate esistono” in relazione ad altri concetti come ringhiano o ruggiscono. Dopodiché egli riprende gli studi di Russell sulla funzione proposizionale, che andrò ad illustrare tra poco e mostra come attraverso proposizioni ostensive non è possibile indicare l’oggetto “esiste”. Questo perché per Russell (e anche se non viene detto, vale lo stesso per Frege) l’esistenza non è un predicato di individui. Qui si potrebbe già muovere una prima critica a Russell, perché lui quando fa l’esempio dell’indicare e dire questo (indica A) è un uomo e questo (indico B) è greco, quindi indicare A+B è indicare l’uomo greco, tratta le proprietà come se fossero universali sociali, perché ciò che consente ad una proprietà di aver senso è l’essere esemplificata da almeno un oggetto indicato. Per cui l’assurda conseguenza di questo modo in intendere le proprietà porta alla conclusione che secondo Russell l’essere è una proprietà di proposizioni, ed è quindi un predicato, ma non di individui, ma solo delle proposizioni stesse. Questa assurdità la riprenderemo in seguito, perciò tenetela bene a mente, perché vi aiuterà a comprendere come il pensiero metafisico sia rimasto intatto anche in questo ultimo sistema.

In filosofia analitica c’è una corrente di pensiero, quella maggioritaria, che identifica il senso di una frase in una proposizione. La proposizione è un oggetto astratto che esprime lo stato di cose descritto dalla frase, essa è esterna ed immutabile ed è oggettiva. Le proposizioni esprimendo il senso della frase possono anche non seguire letteralmente la frase stessa, per esempio “tu mangi la mela” e “la mela è mangiata da te” sono due frasi, o enunciati, che individuano la stessa cosa proposizione poiché significano la stessa cosa. Moore dice che le proposizioni stanno in una relazione che egli chiama di “afferramento” rispetto alle frasi, e capire una frase significa comprendere la proposizione che essa esprime. Secondo questa teoria, quando non capiamo una frase, per esempio in una lingua straniera, è perché non siamo capaci a metterci nella relazione di afferramento con la proposizione. Se più frasi possono avere come senso la stessa proposizione, non è vero il contrario, in quanto una frase non può corrispondere a più proposizioni, altrimenti risulterebbe ambigua e priva di senso. Ora, una funzione proposizionale è semplicemente una proposizione della quale possiamo calcolare il valore di verità in modo componenziale. Questo significa che in una funzione proposizionale ci possono essere solo connettivi verofunzionali (e, o, se, allora) che sono connettivi che permettono di calcolare la verità di una proposizione in base a regole ben specifiche, con una tavola di verità. Tuttavia il concetto di funzione proposizionale è importante perché una funzione proposizionale è una “proposizione aperta”. A volte si dice anche che è la forma di una proposizione. Per esempio, x è un animale è una funzione proposizionale. Nelle funzioni proposizionali mancano i soggetti perché le funzioni proposizionali sono come delle “formule” nelle quali i soggetti vanno inseriti di volta in volta. Quando inseriamo un soggetto specifico e invece di “x è un animale” abbiamo “la lucertola è un animale”, abbiamo una proposizione specifica. Ma noi possiamo computare il valore di verità di una proposizione solo perché siamo dotati delle funzioni proposizionali, ed in base al soggetto che mettiamo nella funzione proposizionale possiamo avere il vero o il falso come valori di verità. Per esempio, “la selce è un animale” restituisce come valore di verità il falso. Ci sono due motivi per i quali è così, e dipendono dal modo in cui viene concepito il predicato. Secondo Frege il predicato ha come senso un concetto (il riferimento dei predicati è complicato e lo si tratta in un secondo momento) ed è una funzione. I predicati sono però concetti monchi perché di per sé non dicono nulla, devono sempre abbinarsi a dei soggetti. Frege concepisce il predicato e il soggetto come una funzione matematica. La lucertola è un animale è concepito come f(x), dove f è “è un animale” e x è la lucertola (questo punto l’ho già accennato nell’articolo precedente). Il soggetto è l’argomento della funzione. L’equivalente del numero da sostituire alla x in matematica quando si ha per esempio y=f(x). Il predicato quindi consente di effettuare il calcolo del valore di verità ed è ciò che consente alla proposizione di avere un valore di verità. Per Frege i valori di verità sono due: vero o falso. L’altro modo di intendere i predicati è intenderli come classi e basta, in modo semplificato. E questa “logica” la troviamo oggigiorno nei linguaggi di programmazione soprattutto di alto livello più famosi, come Rust, Python, Swift, etc. Molti li trattano così, Frege non voleva perché per lui il vero ed il falso erano oggetti logici e le proposizioni fanno riferimento al vero e al falso così come la matita si riferisce all’oggetto matita. Chi ammette che i predicati sono classi non può reificare il vero e il falso, mentre Frege voleva farlo per spiegare il linguaggio attraverso la matematica, per cui non poteva concepire il predicato come una classe. Concludendo questa osservazione quindi, il predicato “in senso logico” è semplicemente una coppia ordinata a cui al primo membro viene assegnato il secondo mediante il predicato stesso, che è la funzione. Per esempio “Pietro mangia la pizza” è espresso come mangiare(Pietro, pizza). Questa forma qui è il predicato in senso logico. Questo è un predicato a due posti, e non vi è un limite ai posti, proprio come avviene per i metodi in python. Dire “la scimmia ha staccato un frutto da un albero” si scrive staccato(scimmia, frutto, albero).

Moore ebbe pertanto un’intuizione geniale. Analizzando le civiltà antiche possiamo dire che concepivano infatti, come già visto nei precedenti articoli, che l’essere sia come ciò che genera e dunque un predicato (l’atto generativo in sé va a costituire il concetto ousiologico di essere come processo) e sia come essere come essenza, come spirito, degli enti generati dall’essere come processo. Dunque lo spirito assoluto si dimostra essere ciò che è per le religioni come il cristianesimo proprio il verbo, il processo dell’essere, nonché come se l’esistenza fosse un’esecuzione che può essere accesa e spenta “a piacimento”. Viene altresì ad essere dimostrato pertanto come la sua predicabilità per assurdo, poiché non è possibile creare o distruggere ma solo assemblare e disassemblare, si dimostra essere un rimasuglio insulso ma ancora persistente del pensiero metafisico che tanto ha generato pensieri assurdi nella storia. Da un lato l’essere dell’essere è la proiezione di una negazione immutabile e separata dalla realtà, la soggettività inviolabile della negazione chiusa nel principio di identità. Dall’altro lato l’essere dell’ente, cioè che della negazione che si unisce agli utilizzabili di cui vuole dissolvere per mezzo dell’utilizzabilità. Più gli enti sono, meno è la negazione ma meno viene il senso dell’essere. Allo stesso modo, più l’ente partecipa dell’essere, meno all’essere rimane nella sua identità.

Riprendere cercando: La seconda parte dell'articolo è quella un po' più difficile. Quando inizia a dire che per esempio la frase "delle tigri addomesticate esistono" è equivalente a dire "alcune tigri addomesticate non esistono" Moore sta lavorando con il quadrato della logica classica, e rimpiazzando dei quantificatori. Senza entrare nei dettagli, lo spiego con il linguaggio naturale: se si dice “delle tigri addomesticate esistono” si presuppone che ve n’è almeno una che non esiste. Per questo, si può sostenere che questa frase ha lo stesso significato, o implica che alcune tigri addomesticate non esistono, perché quando si dice “delle” si sta usando un articolo determinativo per circoscrivere (quantificare) il soggetto della frase. È come se chiedendoci se Aristotele abbia scritto libri validi, si rispondesse “dei libri sono validi”, senza però dire quali siano quelli non reputati come validi. Allo stesso modo, dire che delle tigri addomesticate esistono significa dire che alcune tigri addomesticate, quelle che rimangono fuori dalla circoscrizione, non esistono. Però “delle tigri addomesticate esistono” significa anche “alcuni tigri addomesticate esistono”, questo perché sia “delle tigri addomesticate esistono”, sia “delle tigri addomesticate non esistono”, sono proposizioni che stanno in un rapporto particolare. In logica si dicono che sono subcontrarie, che significa che non possono essere entrambe false, almeno una delle due deve essere vera. Questo perché se “delle tigri addomesticate esistono” è falsa, vuol dire che delle tigri addomesticate non esistono, ma se è falsa anche che delle tigri addomesticate non esistono, vuol dire che delle tigri addomesticate esistono. Nulla toglie che queste frasi siano entrambe vere. Infatti Moore dice che è possibile che alcuni tigri addomesticate siano reali ed altre immaginarie. Ma lui dice che riesce a trovare questo significato solo se proprio si considera “non esistere” come “non connotato spaziotemporalmente” e questo cambiamento di significato quando diciamo “delle tigri addomesticate non ringhiano” non è richiesto per mantenere il senso della frase. Questo perché la frase “delle tigri addomesticate non ringhiano” presuppone che si stia parlando esclusivamente delle tigri esistenti. Invece “delle tigri addomesticate non esistono” fa il contrario, cioè sostiene che alcune delle tigri addomesticate non ci sono. Concludo il riassunto di alcune delle esposizioni di Moore che ho qui riportato come introduzione al discorso delle proprietà, per poi muovere delle considerazioni a favore di una nuova teoria ontologica fondata sulla teoria dei grafi. Alla fine Moore dice che noi possiamo dare un significato all’espressione “questo esiste” soltanto grazie alla logica (modale), poiché dirlo vuol dire qualcosa che poteva (logicamente) non esserci, mentre invece c’è. Alla fine conclude che ogni volta che diciamo “questo esiste” diciamo una verità banale ma sempre vera, perché l’atto di indicare qualcosa avviene sempre nella realtà e quindi quando indichiamo qualcosa indichiamo sempre qualcosa di esistente. Quando diciamo invece “questo non esiste” Moore sostiene che diciamo sempre qualcosa di falso, perché quando indichiamo qualcosa, quel qualcosa che indichiamo, fa sempre parte della realtà. Ora, queste due frasi possono significare qualcosa (cioè avere un valore di verità) perché secondo lui l’esistenza di qualcosa non si può dimostrare logicamente, poiché la sua non esistenza implica una contraddizione logica (questo assomiglia all’argomento di Hume). Prima di arrivare a quest’ultima sezione egli discute brevemente che quando diciamo “questo è un libro” in realtà stiamo dicendo “questi sono i dati sensoriali di un oggetto che chiamiamo libro” e che in realtà stiamo dando dei giudizi sui nostri dati di senso e non sugli oggetti.

Nel prossimo articolo proseguiremo la seconda parte dell’esposizione delle teorie di Moore, andando a cogliere un aspetto ontologico un po’ più difficile, riflettendo più che altro sui significati.

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