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Moore e un’ontologia per proprietà: seconda parte

Moore quando dice che possiamo trovare un significato a “delle tigri non esistono” parlando dell’esistenza di tigri immaginarie già getta una soluzione sul problema dell’ambiguità del termine esiste. Il significato di esiste in senso ontologico è x è derivabile senza contraddizione dalla struttura dell’essere. Invece nel senso comune, esistere indica l’assenza di connotazione spaziotemporale. È perché il termine “non esiste” viene usato maggiormente in questo senso che in filosofia c’è un problema. Dall’altro ammettere che esiste tutto, dall’altro che si può dire di qualcosa che non esiste. Questo si chiama problema degli esistenziali negativi e lo esamineremo meglio poi, quando discuteremo delle tesi di Quine che parla proprio di questo argomento. Qui ci limiteremo a far notare per ora come già Moore si era reso conto dell’ambiguità di questo termine, e che di principio di nulla si può dire che non esiste senza cadere in una contraddizione. Questo significa che ogni volta che quantifichiamo (cioè diciamo almeno una x ha la proprietà P, o tutte le x hanno la proprietà P) il quantificatore può spaziare solo entro ciò che esiste. Questo problema non si pone quando si dice “delle tigri addomesticate non ringhiano” perché quelle che ringhiano vengono concepite come esistenti. Dire “delle tigri addomesticate non esistono” significa presupporre che ciò verso cui si quantifica esiste. Non a caso poi Quine adotterà proprio questo criterio come criterio di impegno ontologico: le variabili su cui quantifichiamo sono quelle verso cui ci impegniamo ontologicamente. Tuttavia le cose non sono così semplici, perché i Meinonghiani (i sostenitori delle tesi di Alexius Meinong) con Francesco Berto, fanno notare che nulla ci obbliga a presupporre l’esistenza di ciò che quantifichiamo. Come si risolve questo problema?

Effettivamente noi possiamo predicare una proprietà a prescindere dall’esistenza. Anzi, noi possiamo predicare una proprietà proprio per dimostrare che qualcosa non esiste. Quando diciamo che dio è onnipotente e in virtù della sua onnipotenza non può esistere, noi stiamo mostrando attraverso la predicazione di un non esistente la sua non esistenza. Ma questo vale anche quando affermiamo l’esistenza o meno di qualcosa? Quando attribuiamo una proprietà ad un esistente o un non esistente stiamo agendo all’interno della struttura dei significati. Quando diciamo invece che x esiste o x non esiste, noi ci stiamo chiedendo se x appartiene o no alla struttura di senso dell’essere. Se x vi appartiene, allora esiste, altrimenti no. Ora, il problema qui è: e gli oggetti impossibili? Dio, il quadrato rotondo e l’acqua asciutta, sono oggetti impossibili. Essi esistono? Ci stanno nella struttura dell’essere? La risposta è sì. Questi fanno parte della struttura dell’essere in quanto oggetti impossibili e denotano tutti lo stesso universale: l’insieme vuoto, il quale potremmo tradurlo come non apofantico o NULL/nullo. Questo significa che dio, l’acqua asciutta ed il quadrato rotondo hanno tutti il medesimo riferimento. Il loro senso però è diverso. Quindi la domanda “dio esiste” ha una duplice risposta: sì, ma solo come oggetto impossibile. Ciò significa che esso è e non è. Il suo statuto è il contraddirsi. Questo ci permette di risolvere il problema della quantificazione: noi in realtà ci impegniamo sempre esistenzialmente quando quantifichiamo. Ciò verso cui non ci impegniamo è il riferimento del termine. Quando diciamo “alcuni unicorni sono bianchi” gli unicorni di cui stiamo parlando esistono, e diciamo che c’è almeno un unicorno bianco. Ora voi pensate che questa frase sia vera, ed infatti lo è, perché essa dice che ci sono degli unicorni, che quindi il termine unicorno ha senso nella struttura dell’essere, e che questo termine denota un animale che ha determinate caratteristiche. Siccome alcuni unicorni hanno la caratteristica di essere bianchi, allora sono bianchi. La frase sarebbe falsa se dicessi “alcuni degli unicorni connotati spaziotemporalmente sono bianchi” perché il termine unicorno non denota un qualcosa di spaziotemporale.

In conclusione, noi non possiamo affermare in absolutum la non esistenza di qualcosa, perché per poterlo fare avremmo bisogno di una teoria della non esistenza. Ma noi sappiamo discernere ciò che non è solo perché sappiamo ciò che è. Quindi se possiamo determinare in modo proprio e positivo l’esistenza, possiamo determinare la non esistenza solo in senso relativo, cioè relativamente all’essere. Questo significa che quando neghiamo l’esistenza di qualcosa non possiamo farlo in senso assoluto. Possiamo solo negare alcune proprietà, ma per esempio dire che dio non esiste come oggetto impossibile è falso. Per cui l’esistenza è un concetto tutto-nulla, la non esistenza no. Noi possiamo paradossalmente quantificare la non esistenza, ma non quantificare l’esistenza. Questo perché esistenza e non esistenza sono asimmetrici. Noi “stiamo dalla parte dell’essere”. E non potrebbe essere altrimenti, dato che ogni nostra conoscenza è determinata e finita e possiamo conoscere l’infinito, per esempio in matematica, solo elaborandolo in una struttura finita di ragionamento.

Ora viene la parte cruciale che è una svolta rispetto alla filosofia analitica classica. Quando diciamo “alcune tigri addomesticate non esistono” non stiamo quantificando sulle tigri. Non stiamo dicendo “esiste almeno una x tale che NE(x)”, dove NE sta per non esiste. Stiamo dicendo “c’è almeno una proprietà P per la quale la tigre non esiste”. Stiamo quantificando solo le proprietà, e in questo senso diciamo che una proprietà P è tale che se predicata di alcune tigri, quelle non esistono. Questo significa a differenza di quanto pensa Quine, che un’ontologia completa è del secondo ordine. Purtroppo è molto molto difficile trovare oggigiorno libri di logica che la trattano. Alla fine Moore dice che l’unico modo per dire che “questo esiste” ha un significato è dire che poteva logicamente non esistere. Se si accetta questa ipotesi si accetta anche quanto fin’ora qui sostenuto in merito alla quantificazione sulle proprietà. Non ha senso impegnarsi in modo modale ed iniziare ad adottare metodi alla Kripke.

Qualcuno potrebbe asserire magari ora che la teoria esposta sia tautologica, ma a tale scopo provo a contraddire anche questa antitesi. Innanzitutto per scoprire che un oggetto impossibile è tale occorre effettuare un’analisi ontologica. Per esempio, molti credono ancora che dio esista in maniera fisica e quindi spaziotemporale. Poi, dire che un oggetto impossibile esiste in quanto oggetto impossibile vuol dire che quella determinazione ha almeno una proprietà per cui è determinata. Si potrebbe infatti dare un principio generale che uno potrebbe chiamare “principio di esistenza obbligatoria” che in realtà è un rovesciamento del principio di astrazione in teoria degli insiemi, il quale dice che data una proprietà P esiste un oggetto che ha quella proprietà. Il principio di esistenza obbligatoria invece dice che data una determinazione dell’essere, in quanto determinazione, deve avere almeno una proprietà. Altrimenti lo si può formulare con: condizione necessaria e sufficiente per l’esistenza è il predicarsi di almeno una proprietà. Inoltre, avendo stabilito che essere è predicarsi di almeno una proprietà, ne consegue sicuramente che tutto ciò che è determinabile esiste come proprietà che la determina. In quanto tale il domandarsi circa l’esistenza di x è in un senso tautologico (l’esistenza di un determinato che assumiamo come tale è una verità logica) ma d’altra parte non è una tautologia vuota, poiché in filosofia la corrente principale considera gli oggetti impossibili come non esistenti. Ci sono solo due casi particolari da chiarire:

  1. Il determinato che ha la proprietà di non avere proprietà.
  2. Il determinato che ha la proprietà di non esistere.

Nel primo caso diciamo che rientra negli oggetti impossibili, perché ha una proprietà, ed è la proprietà di non avere altre proprietà. In tal caso il principio di esistenza obbligatoria è rispettato. Il secondo caso invece ha un trattamento diverso: siccome la sua proprietà è quella di non esistere, allora non ha proprietà perché esistere è predicarsi di almeno una proprietà. Di conseguenza il secondo caso non è un determinato e non è nemmeno un oggetto impossibile, dunque esiste solo come contraddizione, cioè come atto fallito di determinazione. Possiamo fare una gerarchia:

  1. Contraddizioni.
  2. Oggetti impossibili.
  3. Oggetti fittizi.
  4. Oggetti storici.
  5. Miti, pensieri, immaginazione.
  6. Oggetti linguistici (gli universali).
  7. Determinati fisici (atomi, molecole, etc.). Dove tutti i punti precedenti sono benissimo riducibili al settimo punto.

I critici di questa teoria potrebbero dire che assumendo una versione forte (anche se riformulata) del principio di astrazione, la teoria diventa triviale e inconsistente perché è in grado di dimostrare l’esistenza di tutto. La cosa non è così, perché i palesi casi di contraddizione assoluta (il determinato che ha la proprietà di non esistere) non vengono derivati come esistenti dalla teoria. Nel caso degli oggetti impossibili, poiché diciamo che l’essere non è un predicato, dire “il quadrato rotondo” ed “il quadrato rotondo esiste” è dire la stessa cosa, perché il nostro concetto di esistenza non è lo stesso della filosofia analitica classica. Noi non diciamo che esistere vuol dire essere connotati spaziotemporalmente. Diciamo che la connotazione spaziotemporale è un tipo di esistenza. Qualcuno potrebbe dire che con questa ontologia si andrebbe a relativizzare l’essere, ma questa è un’accusa infondata. Esistere vuol dire che un determinato ha un senso nella struttura dell’essere. Ora, tutte le domande filosofiche non sono mai domande sull’esistenza. Quando ci si domanda se x esiste in realtà ci si domanda se x ha davvero le proprietà che gli ascriviamo. Ad esempio, sempre rifacendoci al concetto di dio, se ci domandiamo “dio esiste?” non stiamo facendo altro che chiederci se dio ha determinate proprietà. Infatti, confondere la domanda “quali proprietà ha dio?” con la proprietà “dio esiste?” è segno del nichilismo, in quanto si assume implicitamente che l’essere sia un predicato, o comunque un qualcosa di sostanzializzabile. Questo perché la domanda sull’esistenza è una domanda interamente risolvibile a priori. Prendendo la definizione di un determinato, noi possiamo sapere con certezza quali sono le proprietà che effettivamente può avere. Ad esempio, se confrontiamo dio con l’unicorno, dio è onnipotente e quindi non può esistere nello spaziotempo, mentre un unicorno essendo solo un cavallo con un corno, in linea di principio nulla nega che possa esistere. Ciò che ci consente invece di dire che l’unicorno non si trova in natura è l’analisi scientifica, e questa ricade interamente all’interno della domanda delle proprietà. Se ci si chiede “l’unicorno ha la proprietà di essere connotato spaziotemporalmente?” la risposta è “no”. Ma se ci si domanda “l’unicorno esiste?” la risposta è sicuramente “sì”. C’è un modo in cui si può “relativizzare” in modo apparente l’essere, ed è utilizzare la dicitura “a esiste in p” dove “p” è la proprietà che a dovrebbe o non dovrebbe avere. Se diciamo “l’unicorno esiste nello spaziotempo?” la risposta è no. Ma questa non è una relativizzazione dell’essere, semmai una sua precisazione, perché il significato “assoluto” di esistenza è sempre positivo. Infatti se ci chiediamo “l’unicorno non esiste oltre lo spaziotempo?” la risposta è sicuramente che fuori dallo spaziotempo l’unicorno c’è.

Nel prossimo articolo andremo a discutere ancora delle proprietà e di un sistema più formalizzato, iniziando a teorizzare alcune delle applicazioni di questa nuova ontologia.

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